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La guerra per la Cisgiordania è solo all’inizio. Mascherata da operazione antiterrorismo, l’operazione militare israeliana non nasconde sul terreno ben altre ambizioni, favorite dalle crescenti divisioni tra le fazioni palestinesi. Nel 2020 Benjamin Netanyahu aveva dovuto rinunciare al piano per l’annessione parziale della Cisgiordania. La pressione internazionale aveva ottenuto il passo indietro del premier israeliano in cambio di una progressiva normalizzare delle relazioni con gli Emirati Arabi Uniti. Cinque anni dopo Netanyahu ci riprova sperando così di salvare il governo che dopo l’accordo con Hamas resta in equilibrio precario.
Il ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich, che a differenza dell’altro leader estremista Ben Gvir non ha lasciato il governo, ha dichiarato che questo sarà «l’anno della sovranità in Giudea e Samaria», dal nome biblico che Israele usa per la Cisgiordania. Smotrich, egli stesso un colono in un insediamento di occupazione, come molti israeliani considera la Cisgiordania parte della patria storica e rigiuta la sola idea che possa esistere uun giorno uno stato palestinese. Escludendo Gerusalemme Est, annessa da Israele, dove vivono 200 mila residenti ebrei, la Cisgiordania ospita circa mezzo milione di israeliani in insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale.
Le manovre sul terreno dei militari israeliani sembrano consolidare e ridefinire la mappa degli insediamenti. «Siamo profondamente preoccupati per l’uso di forza letale illegale a Jenin, nella Cisgiordania occupata. Le operazioni israeliane degli ultimi giorni – ha detto il portavoce dell’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite Thameen Al-Kheetan in una conferenza stampa a Ginevra – sollevano serie preoccupazioni per l’uso non necessario o sproporzionato della forza, compresi metodi e mezzi sviluppati per combattere la guerra».
La resistenza palestinese non è un fronte compatto e il confine tra “partigiani” e “terroristi” non è sempre così marcato. Ieri il comandante a Jenin delle Brigate Ezzedin al-Qassam, l’ala militare di Hamas, si è consegnato all’esercito israeliano (Idf) nella parte orientale della città. Con i tre palestinesi uccisi in serata dai droni, l’elenco dei morti nella prima settimana dell’operazione “Muro di ferro”, ha già superato i 20. Le colonne dell’esercito a mano a mano stanno tenendo sotto tiro l’intero confine tra Israele e la Palestina, mentre dall’interno i coloni armati spingono la popolazione ad abbandonare la terra e trasferirsi da qualche altra parte. Le fratture interne favoriscono il piano israeliano. Hamas nei giorni scorsi ha chiesto ai palestinesi di ribellarsi all’Autorità nazionale palestinese. A dicembre c’erano stati scontri diretti e in città calde come Tulhkarem e Hebron, le notizie di crescenti scaramucce tra polizia locale e militanti armati si vanno intensificando. Ieri i media ufficiali dell’Autorità controllata da Abu Mazen, preparandosi al rilascio degli ostaggi che ancora una volta vedrà a Gaza i miliziani di Hamas ammassarsi davanti alle telecamere, hanno irriso l’organizzazione armata: «La narrazione della vittoria di Hamas è un mito assurdo, come è evidente dal fatto che è solo retorica popolare e non ha alcun collegamento con la realtà», scrivono giornali e agenzie di stampa ufficiali che citano altre “vittorie di Pirro”, come quella rivendicata mezzo secolo fa nel Golan siriano, che invece «era occupato da Israele lo è ancora oggi!!».
Non è un riferimento per caso. Con la caduta di Assad Israele prevede di installare postazioni militari con i villaggi per le famiglie dei soldati lì dove sono situati gli impianti che controllano il principale afflusso idrico verso la Siria, nel Golan occupato. Una presenza che può essere assicurata dalla permanenza dei battaglioni israeliani nel Sud del Libano. Ieri lo stato maggiore di Tel Aviv ha fatto sapere che le forze israeliane (Idf) non si ritireranno dal sud del Libano entro domenica, quando scadranno i 60 giorni previsti dall’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah, entrato il vigore lo scorso 27 novembre. «Il processo di ritiro delle Idf è subordinato al dispiegamento dell’esercito libanese nel Libano meridionale e all’applicazione piena ed efficace dell’accordo, mentre Hezbollah si ritira oltre il Litani», ha spiegato l’ufficio di Netanyahu, secondo cui dal momento che il Paese dei Cedri «non ha ancora pienamente attuato» i suoi obblighi relativi al cessate il fuoco. E volendo ancora una volta esautorare la missione Unifil delle Nazioni Unite, il governo israeliano ha assicurato che «il processo di ritiro graduale continuerà, in pieno coordinamento con gli Stati Uniti». Secondo i piani di Trump per il Medio Oriente.
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