(CR) Pianeta Migranti. Africa, non chiamiamolo “Piano Mattei”
L’editoriale firmato da S.E. mons. Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della Fondazione Migrantes, pubblicato sull’ultimo numero di Migranti Press.
Quello tra Africa e Italia è un lungo rapporto che ha nei secoli molte testimonianze di scambi artistici, culturali, economici e sociali.
Per limitarci al tempo che va dall’Unità d’Italia a oggi, pensiamo alle relazioni intense con il Marocco, la Tunisia, la Libia e l’Egitto, dove l’emigrazione italiana ha avuto un’importanza fondamentale, con anche alcuni aspetti drammatici. Pensiamo anche alla presenza missionaria italiana, che ha coniugato evangelizzazione e promozione umana praticamente in tutti i Paesi africani. Pensiamo all’esperienza coloniale in Libia, in Etiopia, Eritrea e Somalia. Pensiamo all’importanza del Pia no Mattei del dopoguerra. Fino ad arrivare ad oggi, con l’arrivo in Italia, soprattutto dalla metà degli anni ’70 in poi, dei primi africani, la maggioranza dei quali proveniente da soli due Paesi (Marocco e Tunisia), che hanno una relazione storica con l’Italia, soprattutto con la Sicilia.
Spesso si dimenticano la storia passata e presente di sfruttamento dell’Africa da parte del nostro Paese, la grande risorsa che rappresentano i lavoratori africani in molte aziende, la situazione drammatica delle persone che hanno perso tutto a causa delle guerre. Ai conflitti si aggiungono i cambiamenti climatici che vedono le persone trovare la sola speranza di vita nel viaggio, nella migrazione da una parte e, dall’altra, in un condono del debito estero e in progetti di cooperazione che creino le condizioni, negli anni, per un ritorno.
In questo contesto, un interrogativo grave pone l’efficacia di quello che il governo italiano ha definito “Piano Mattei”, che però per onestà intellettuale andrebbe chiamato “Piano Meloni”, per non confonderlo con il vero Piano Mattei.
Il Piano Mattei, infatti, nacque dalla condivisione di un gruppo multidisciplinare di intellettuali cattolici e della sinistra democratica, aggregati intorno all’Università Cattolica di Milano. L’ateneo milanese, infatti, già prima della fine della Seconda guerra mondiale, aveva iniziato a studiare i temi della cooperazione internazionale, della tutela dello sviluppo economico delle nazioni più sfavorite e dell’equa partecipazione di tutti i popoli ai beni della terra, stimolato anche dal radiomessaggio del 1942 di Pio XII, che sottolineava l’interdipendenza tra i popoli, coinvolgendo docenti di diverse Università. Tra i protagonisti di quella riflessione ricordiamo tra gli altri Ezio Vanoni, Marcello Boldrini, Francesco Vito, Amintore Fanfani, Pasquale Saraceno e Giorgio La Pira.
Queste idee incontrarono poi le capacità tecniche e organizzative di Enrico Mattei. Il Piano che prese il suo nome nasceva a partire da un’azienda di Stato, l’Agip – poi trasformata in Eni – che sarà poi un volano nella distribuzione degli idrocarburi. Si poggiava sull’idea di una mutualità non tra persone, ma tra popoli, i popoli dell’Africa, chiamati a costruire progetti i cui utili sarebbero stati divisi alla pari, “senza speculazione privata”, con un convinto appoggio al diritto di ogni popolo di perseguire il proprio riscatto politico, economico e sociale.
È da questo “capitale culturale”, che aveva generato anche il Codice di Camaldoli, con il contributo di Giuseppe Lazzati e Giuseppe Dossetti, che nacque il Piano Mattei. Un piano che si poggiava sull’esperienza della cooperazione in Italia, nata soprattutto dal movimento cattolico e socialista, riconosciuta dalla nostra Costituzione all’art. 45, che recita: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”.
La cooperazione così intesa è uno strumento di democrazia dal basso, e in questo senso ha preparato la democrazia e costruisce democrazia.
Ci domandiamo: la cooperazione internazionale realizzata dal nostro Paese con il nuovo Piano Mattei/Meloni in nove Paesi africani (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Costa d’Avorio, Mozambico, Repubblica del Congo, Etiopia e Kenya) conserva queste caratteristiche di funzione sociale, di mutuo aiuto, cioè di collaborazione alla pari, “senza fini di speculazione privata”?
In ordine all’efficacia del Piano attuale, bisogna anche chiedersi quale valore aggiunto possano avere le poche risorse messe a disposizione – si parla di 600 milioni di euro per il 2025 – a fronte di un continente che necessiterebbe di 500 miliardi di dollari, per garantire accesso all’energia a tutta la popolazione, e di 438 miliardi di dollari per investimenti entro il 2030.
L’attuale Piano, tra l’altro, non fa alcun riferimento al Piano europeo sull’Africa, che dal 2009 opera con le risorse e la collaborazione di tutti gli Stati e un fondo di 150 miliardi di euro, a fronte dei 5 e mezzo in tre anni del nuovo “Piano Meloni”.
Per concludere: se le politiche sull’immigrazione e le politiche sulla cooperazione non camminano insieme, contrapponendo il diritto di migrare con il diritto di rimanere nella propria terra e non tutelando entrambi, si annullano, aggravando la situazione dei migranti e dei Paesi d’origine.
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