Espulso perché pericoloso, dice il ministro dell’Interno. No, non espulso ma liberato dai giudici perché un altro ministro, il guardasigilli, non era stato informato del suo arresto. Macché, dice il titolare degli Esteri Tajani, Almasri è stato rispedito a casa con un volo di Stato e restituito a una folla osannante perché, in fin dei conti, la Corte penale internazionale “non è la bocca della verità”. Rilette in ordine sparso, le risposte di tre esponenti dell’esecutivo riproducono l’effetto di un film di Kurosawa, in cui sette testimoni raccontano lo stesso episodio in sette modi diversi o addirittura opposti. Peccato che in questo caso l’imperturbabile compostezza nipponica venga sostituita da uno stato confusionale, raro in consessi diversi da euforiche tavolate di amici ad alto tasso alcolico. In vino veritas? Di veritas non c’è traccia nella vicenda di Osama Almasri Njeem, accusato dai giudici dell’Aja di sequestri torture, sevizie ai danni di migranti che hanno avuto la ventura di addentrarsi in Libia per raggiungere le sponde europee, finendo negli ormai famigerati centri di detenzione di Mitiga o al Jadida.
La trafila contenuta nell’atto di accusa della Corte penale internazionale ormai è nota. Migranti pestati a sangue, spesso uccisa a suon di calci, pugni e bastonate. Torture trasmesse in diretta, via cellulare, ai parenti della vittima perché si decidano a pagare un riscatto per la sua liberazione. Almasri, per la Cpi non è solo un ufficiale della polizia libica ma è uno dei trafficanti di uomini, donne e bambini a cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni giura voler dare la caccia “in tutto il globo terracqueo”. La realtà è leggermente (si fa per dire) diversa da quella prospettata da Palazzo Chigi. Secondo molte ricostruzioni, Almasri, pur ricercato, si è concesso una lunga gita in Europa e persino lo sfizio di assistere un derby calcistico su suolo italiano. Arrestato a Torino in base a un mandato internazionale, dopo quattro giorni si è ritrovato su un aereo dei nostri Servizi segreti diretto a Tripoli: un esito che ricorda i fasti di alcuni decenni fa, quando sui voli della Cai, Compagnia aerea italiana controllata dal Sismi (Servizio segreto militare, oggi Aise) trovava ospitalità persino un boss della Banda della Magliana.
A differenza di allora, quando a comandare i Servizi era la P2, c’è un coinvolgimento diretto del governo. Almasri è ridiventato un latitante grazie a un Falcon che scaldava i motori a Ciampino nelle stesse ore in cui la Corte d’appello di Torino doveva ancora pronunciarsi. Il provvedimento con cui l’ufficiale libico era stato bloccato dalla Polizia italiana era incompleto, cioè privo dell’informativa al ministro guardasigilli prevista in caso di esecuzione di un mandato di cattura internazionale. Difetto facilmente sanabile da un intervento del ministro che i giudici torinesi hanno atteso invano. Il Falcon è arrivato prima, mandando su tutte le furie i magistrati della Corte penale internazionale, nata nel 1998 in base a uno statuto firmato proprio in Italia. Segno ulteriore che la il governo non tollera controlli di legalità, come già si è visto in occasione dell’intesa con l’Albania sulla detenzione di migranti approdati in Italia. Il rispetto dei diritti umani resta in secondo piano, anzi è una macchia sullo sfondo.
L’Italia ha verosimilmente agito sotto un ricatto a testata multipla. Da una parte la Libia avrebbe potuto agevolare lo sbarco di migranti sulle nostre coste meridionali. Dall’altra, il generale Almasri avrebbe potuto rivelare ulteriori particolari sugli accordi – non solo con l’Italia – che hanno fatto del Paese nordafricano un cuscinetto tra le ondate migratorie e l’Europa. Questa politica di contenimento non è una prerogativa del governo Meloni. Fu avviata da Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni. Nel 2017 fu un accordo con il governo di Fayez Al Farraj e 60 tribù libiche favorì tra l’altro l’invio alla Guardia costiera libica di 10 motovedette utilizzate per arrestare i migranti che tentavano di attraversare il Mediterraneo. Sui giornali di ieri campeggiava la testimonianza di uno di questi, deportato nel centro di detenzione di Mitiga, sottoposto a violenze e sevizie guidate da proprio da Almasri, capace di uccidere a colpi di pistola chiunque non scattasse all’ordine di alzarsi o mettersi a sedere. Chi aveva già pagato per traversata veniva costretto a chiedere a casa altri soldi per poter restare vivo. All’intesa sottoscritta da Minniti se n’è aggiunta nel 2023 un’altra voluta dal governo Meloni.
Il risultato è paradossale. Chi dichiara di voler dare la caccia ai trafficanti di uomini oggi probabilmente se li trova davanti ai tavoli negoziali con la Libia. Ed è chiaro che qualsiasi provvedimento giudiziario, nazionale o internazionale, risulta indigesto per il governo Meloni. Di questa profonda insofferenza verso l’azione giudiziaria penale si è fatto interprete pochi giorni fa il ministro della Giustizia Carlo Nordio, definendo i pubblici ministeri “superinvestigatori senza controllo” e smentendo clamorosamente quanto aveva dichiarato alla Camera, in sede di approvazione della legge sulla separazione delle carriere dei magistrati inquirenti e requirenti: la loro indipendenza, aveva detto, è prevista esplicitamente dal testo che ora dovrà essere esaminato al Senato. Ma che senso ha lamentare l’assenza di controllo sul lavoro della pubblica accusa e contemporaneamente farsi paladino di una legge che, a detta del ministro, ne tutela l’indipendenza? La vicenda Almasri conferma che la stessa giustizia penale internazionale, quella che si occupa di genocidi e crimini contro l’umanità, è considerata dal governo una spina da estirpare o eludere. L’unico verbo accettato è quello dell’esecutivo. Così ha fatto capire il ministro Antonio Tajani.
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