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Innovazione, personalizzazione ed esperienze. Sono le parole chiave del retail di oggi, secondo Elena Vardanega, senior strategist di FutureBrand, un settore alla ricerca di modi per essere rilevante per le nuove generazioni e quelle attuali.
Il retail è arrivato alla versione 4.0. Negli anni 60 è stata la volta della versione 2.0, caratterizzata dall’approccio «tutto sotto lo stesso tetto» di cui sono stati simbolo Walmart e le grandi superfici. Poi è arrivato il 3.0, con l’e-commerce e infine la fase attuale, del 4.0. Il retail di oggi va oltre, utilizzando il fisico e il digitale per comporre esperienze sempre più immersive e di interazione con il brand e, in particolare, con i suoi valori.
Il Fragrance Discovery di Sephora
Un esempio che riunisce diversi aspetti è il Fragrance Discovery che Sephora ha realizzato nel suo store sugli Champs Elysées parigini che offre ai clienti un viaggio olfattivo: è dotato di schermo e di un diffusore e utilizzando diverse parole chiave (floreale, cuoio, legno, ecc.), permette di creare il proprio profilo personalizzato e di offrire una selezione di profumi in base al budget. La personalizzazione si unisce all’emozione, all’esperienza e alla base ha la tecnologia.
I giovanissimi sensibili a tematiche come la sostenibilità
«La generazione Z sta sicuramente introducendo tutta una serie di trend a cui le marche sono molto interessate», spiega Vardanega, «e sta prospettando quella che è la direzione futura anche degli spazi retail. Per esempio, i giovanissimi hanno un’attitudine molto più pragmatica rispetto alle generazioni precedenti, sono molto più sensibili a tematiche come quella ambientale e della sostenibilità. Molto meno inclini ad abbracciare di default racconti e proclami senza che poi la marca dia esempi tangibili di ciò che presenta. Si capisce come le marche oggi siano molto attente a captare questi cambiamenti».
Lululemon, la forza della community
Di fatto il retail si sta allontanando dal significato originale di vendita. I negozi stanno diventando sempre meno dispenser di prodotti e sempre più luoghi di relazione, appunto: «questa può essere un’altra delle parole chiave», prosegue la strategist di FutureBrand. «Relazione fra il brand e consumatore, ma anche fra gli stessi consumatori perché le marche diventano facilitatori di incontri. L’esempio è quello di un fitness retailer molto famoso all’estero che si chiama Lululemon: ha creato un programma in cui mette a disposizione sessioni gratuite di allenamento per chiunque sia interessato alla corsa. Le persone si incontrano tre volte alla settimana e questo fa sì che, oltre alla community che gravita intorno al brand, nascano micro community locali che sono accomunate dagli stessi valori e dagli stessi interessi».
Decathlon e il noleggio delle attrezzature sportive
Ma non è solo questo. Lo store oggi non è più solo punto vendita perché si sovrappongono più livelli: Decathlon, per esempio, ha aggiunto il noleggio, che da una parte permette potenzialmente a tutti i consumatori di fare sport che magari richiederebbero un’attrezzatura costosa, dall’altra si posiziona in linea con la tendenza alla sostenibilità, al riutilizzo.
In Giappone i Loewe ReCraft, specializzati nella riparazione degli articoli dle brand
Retailer che offrono servizi di riparazione seguono lo stesso trend come accade con i Loewe ReCraft specializzati nella riparazione e manutenzione degli articoli in pelle del marchio presenti in Giappone. «Su questo filone emerge un altro concetto molto interessante: sempre più i prodotti vengono considerati anche in ottica potenziale, non soltanto per il valore che il consumatore può attribuirgli immediatamente ma un valore che si dispiega successivamente: ecco la rivendita del second hand oltre che il suo acquisto».
È anche vero, però, che osservando il comportamento delle giovani generazioni si notano contraddizioni. Si pensi ai retailer online come Shein, Temu e gli altri, che seguono direzioni opposte, di estremo consumismo. Ecco, le nuove generazioni spingono sempre più anche in direzioni opposte.
Marchi, l’importanza del dna contro l’omologazione
Il discorso è che non c’è una ricetta unica per tutti proprio perché si possono osservare contraddizioni o tendenze contrastanti anche all’interno delle stesse aree geografiche o a livello internazionale. «Ciò non toglie che le marche stiano cercando di perseguire obiettivi comuni: dotarsi di valori, creare community, offrire personalizzazione, integrazione con le nuove tecnologie», conclude Vardanega. «È essenziale fare in modo che tutto ciò che viene offerto possa essere ricondotto effettivamente al dna della marca, che abbia letteralmente l’impronta della marca perché altrimenti sarebbe tutto omologato».
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