89219. È il numero che ad Aushwitz venne impresso sul braccio di Arianna Szorenyi, di appena 11 anni. Per sette volte, in varie circostanze, si trovò a un passo dalla morte, l’ultima poco tempo prima che arrivassero gli alleati, che la trovarono scheletrica (18 chili), malata, con indosso la casacca col triangolo che segnava la sua origine ebraica (anche se era stata battezzata cattolica). Oggi ha 91 anni. C’è voluto del tempo perché riuscisse a raccontare la sua storia, superando lo sconvolgente shock per l’esperienza vissuta da bambina.
Dalla Risiera di San Sabba ad Auschwitz
È il 6 giugno 1944, a San Daniele del Friuli, dove la sua famiglia si è riparata per sfuggire ai bombardamenti di Fiume. Il padre è di origine ungherese, ebreo, la madre triestina, cattolica. Racconta: «Un funzionario, fascista, dell’anagrafe (davano 500 lire per ogni ebreo che veniva denunciato) indica alle SS il cognome della famiglia e il giorno dopo i tedeschi arrivano in casa e ci trascinano via, i miei genitori, io, quattro sorelle e due fratelli. Veniamo trasferiti a Trieste, a San Sabba, l’unico campo di concentramento italiano dotato di un forno crematorio» . Qui lei riceve la prima umiliazione, una sberla da un soldato che poi schiaccia sotto lo stivale il suo anellino di perline. «Lo avevo consegnato alla richiesta se avessi cose preziose». Poi la deportazione ad Auschwitz. Racconta: «Dal cortile di San Sabba, dopo un breve appello, ci hanno portato alla stazione, uno scalo secondario, davanti a carri bestiame già aperti. Ci hanno spinti dentro, i vagoni stracolmi, c’era solo lo spazio per stare in piedi o accovacciati. Abbiamo viaggiato per sei giorni e sei notti. Non ci davano nulla da mangiare. Noi avevamo ancora qualche cosa, qualche pezzo di pane della mamma. Soffrivamo soprattutto la sete. Alle stazioni sporgevamo le mani implorando da bere. Forse speravano che morissimo già dentro i carri».
All’arrivo ad Auschwitz-Birkenau gli uomini (il padre e i due fratelli) vengono separati dalle donne. Arianna è la più piccola, viene aggregata alle donne: «Ci hanno fatto spogliare completamente nudi, e qui
mi ricordo soprattutto l’imbarazzo della mamma».
Poi destinata al kinderblock, la baracca dei bambini, separata dalla madre e dalle sorelle. Le rivedrà solo attraverso la rete che separa i blocchi e un’ultima volta, da lontano, riuscendo a far avere loro un biglietto, assieme a un pezzo di pane e di burro, grazie all’aiuto di un impiegato italiano che faceva il portaordini dell’infermeria. Giorni terribili e interminabili. Gli occhi della bambina vedono i soprusi, le angherie, la violenza della vita nel campo. «Per tanto tempo ho avuto addosso l’odore dei forni crematori», dice. Il loro fumo ammorbava l’aria: «Se di notte uscivamo per andare al gabinetto, vedevamo questo camino con la fiamma che illuminava tutto il campo e sentivamo l’odore della carne bruciata».
Tre giorni e tre notti nella neve, in viaggio
Quando il campo viene evacuato, nel gennaio 1945, con gli alleati che stanno avanzando, lei è costretta alla marcia della morte, prima verso Ravensbrück e quindi a Bergen-Belsen, campo di concentramento situato nella bassa Sassonia, dove hanno trovato la morte 50mila prigionieri di cui 35mila di tifo nei primi cinque mesi del 1945, proprio mentre arrivano i sopravvissuti, decimati, al termine della marcia della morte, come l’hanno soprannominata. Arianna ha camminato tre giorni e tre notti nella neve, assistendo all’esecuzione di molti prigionieri. Dice: «La marcia era terribile. Nessuno aveva scarpe adeguate. Ogni tanto ci ordinavano di sederci, ma appena ci si sedeva, veniva il cane lupo aizzato dai tedeschi per impedirci di dormire. Era un’altra tortura e ho visto morire tantissima gente. I prigionieri che non ce la facevano venivano colpiti dal calcio del fucile per affrettarne la morte. I primi a morire erano quelli di destra e di sinistra, per questo io cercavo di stare in mezzo. Ad un certo punto mi sono sentita prendere a viva forza dalle spalle. Mi sono voltata di scatto: era un nazista. Un altro tedesco, ridendo sguaiatamente, gli diceva: “Lasciala stare, non prenderla a calci, non è una vecchia, è una bambina”.
Fossi stata vecchia, il tedesco mi avrebbe uccisa
Io, infatti, mi ero talmente conciata con vestiti lunghi e sbrindellati che sembravo una vecchietta. Se fossi stata vecchia forse mi avrebbe uccisa. Poi mi hanno chiesto: “Come mai sei qui?”. Morivo di fame e guardavo quasi implorando il mio interlocutore che mangiava pane dolce col lardo. Lui allora me ne ha dato un pezzo che io ho divorato in un istante. Accortisi che avevo i piedi congelati, hanno impartito l’ordine di caricarmi su una slitta che trasportava i bagagli delle SS, trainata da quattro donne russe. Quella è stata la mia salvezza. Con questa slitta siamo arrivati fino ad una stazione dove sono arrivati i carri bestiame scoperti. Nevicava, avevo già il congelamento. Da sola non riuscivo a salire, mi hanno spinta sopra e sono caduta sugli altri che erano già saliti. Cercavamo un po’ di neve per dissetarci perché si moriva dalla sete. Al mattino sono stata svegliata dalle grida di una donna che stava partorendo. Era nato un bel maschietto. Le donne lo avevano pulito con la neve e lo avevano avvolto in uno straccetto bianco. Il giorno successivo uno dei due SS che ci accompagnavano, aizzato dalla kapò, aveva preso quel fagottino piangente forse per il freddo e lo aveva lanciato come un sacchetto di immondizia sulla neve fresca. Il pianto era cessato quasi subito, ma la madre era impazzita dal dolore».
Anche a Bergen-Belsen la quotidianità era traumatica: «Pensavo che per me fosse finita. Noi ragazzi ci facevano lavorare a certe trecce di paglia, che servivano per le mine, o ci facevano rompere le pietre usando come martello un sasso. Le mani sanguinavano continuamente. Alla sera, nella camerata, entravano le SS e si portavano via qualche bambina. Loro ci andavano perché almeno riuscivano a mangiare qualcosa. Per cercare di sopravvivere cantavamo sottovoce: E dopo aver lavorato /la strada del campo ci tocca rifar /abbiamo il viso imbrattato la testa fasciata/ come tanti solda’ / Svelte noi siam /a lavorar/ma questi malvagi aguzzin /a bastonate ci faran morir. Purtroppo una volta mentre stavano cantando arrivò la kapò e cominciò a picchiarci, finché ognuna, pesta e sanguinante, tornò nel proprio letto a castello. Il mio pensiero fisso, quello che mi faceva andare avanti, è stato il desiderio, vano, di ritrovare la mia famiglia».
Salvata dagli inglesi il 15 aprile 1945
Il 15 aprile 1945 sono arrivati gli inglesi. L’hanno trovata morente, malata di tifo, con un principio di Tbc, i polmoni colpiti dalla pleurite, il piede destro congelato. Per cinque mesi è stata ricoverata all’ospedale militare inglese, poi rimpatriata. Dei suoi familiari è tornato solo un fratello, Alessandro, da Buchenwald. Dei 776 bambini ebrei italiani di età inferiore ai 14 anni deportati ad Auschwitz, Arianna è tra i soli 25 sopravvissuti. Va nelle scuole a raccontare ai ragazzi. Ma dice: «Chi alzerà la propria voce indignata, offesa, quando fra non molto, non ci sarà più alcun testimone»? Qualche tempo fa sul muro della sua casa, vicino al suo campanello, a San Daniele del Friuli, è stata disegnata una svastica. Dopo un po’ qualcuno l’ha coperta con un cartoncino rosso a forma di cuore.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link