Come non pagare le tasse, investire in Bitcoin evita il sequestro preventivo: ecco la nuova sentenza di Cassazione

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Con la sentenza n. 1760 la Cassazione ha sancito che le monete digitali come i Bitcoin non possono essere oggetto di sequestro preventivo in caso di evasione fiscale. Ecco perché

Adatti a chi investe con un orizzonte a lungo termine e a chi tollera un alto livello di rischio, i Bitcoin rientrano nel vasto settore delle criptovalute, ossia monete digitali decentralizzate che consentono di compiere transazioni online, senza l’intermediazione di banche o altre istituzioni finanziarie. Come intuibile, oggi le implicazioni pratiche dei Bitcoin sono svariate, estendendosi a vari ambiti. Anzi, la loro natura fortemente innovativa è e sarà di significativo impatto su economia, finanza, tecnologia e società. Non solo. Anche in tema di rapporti tra contribuenti e Fisco, i Bitcoin hanno oggi un ruolo nient’affatto irrilevante.

Lo ha recentemente rimarcato la Corte di Cassazione – Sezione Terza penale – con una decisione in qualche modo rivoluzionaria e riguardante il c.d. sequestro per equivalente. Quest’ultimo altro non è che una misura cautelare prevista dalla legge italiana, che consente di sequestrare beni di valore corrispondente al profitto o al vantaggio economico ottenuto attraverso un reato: per quel che qui interessa, anche un reato fiscale (basti pensare all’omessa dichiarazione o alla dichiarazione fraudolenta).

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Ma che cosa hanno stabilito esattamente i giudici di piazza Cavour?
Ebbene, con la sentenza 1760/2025 è stato fissato un precedente significativo, annullando il sequestro probatorio di Bitcoin, in precedenza applicato per equivalente all’ammontare dell’imposta evasa e contestata al contribuente nell’ambito del procedimento penale.

L’imputato che abbia investito i proventi di un reato in criptovalute eviterà, quindi, le “tenaglie” del sequestro perché – secondo quanto indicato dalla Cassazione – la misura cautelare reale, focalizzata a colpire il profitto o ricavo derivante dalla commissione dell’illecito tributario (ossia l’imposta evasa quantificata in euro) non può legittimamente applicarsi anche al sequestro di Bitcoin.
Il motivo di una tale conclusione da parte del giudice di legittimità è presto spiegato: pur essendo utilizzate come mezzo di scambio per transazioni tra privati o in contesti specifici (ad esempio per l’acquisto di beni e servizi da soggetti che le accettano), oggi in Italia le criptovalute non hanno valore legale come moneta ufficiale. In altre parole, dalle autorità statali e bancarie non sono riconosciute come “moneta a corso legale”, qualifica che è riservata all’euro.

Ciò significa che le monete digitali decentralizzate hanno un mero “valore digitale” e non sono classificate come vere e proprie “valute” sul piano giuridico e come normale mezzo di pagamento, avente effetti liberatori. Al momento, infatti, le criptovalute come i Bitcoin non sono soggette alle regole in tema di circolazione e cambio delle monete a corso legale. Anzi, in Italia il quadro normativo sulle criptovalute è tuttora in evoluzione e non può oggi essere considerato completamente stabile.

Non solo. Nella sentenza la Corte ha altresì sottolineato le complicazioni pratiche correlate ad un eventuale sequestro di monete digitali, stante la loro natura decentralizzata e la difficoltà di tracciarne i flussi, oltre che di delinearne l’esatto valore equivalente in moneta avente corso legale (euro). Infatti, come è noto, le quotazioni delle criptovalute sono assai oscillanti e variabili anche in brevissimo tempo.
A ben vedere non sorprende, dunque, l’orientamento della Cassazione secondo cui, non essendo il valore dei Bitcoin direttamente correlato al valore delle monete a corso legale, non è possibile disporre il sequestro preventivo per arginare le conseguenze di un reato tributario.
Cogliamo l’occasione per rimarcare che tale sequestro per equivalente è uno strumento giuridico utilizzato proprio per arginare le conseguenze della commissione di reati, compresi i reati tributari. L’istituto consente di bloccare beni o somme di denaro di valore equivalente al profitto derivante dal reato, anche se tali beni non sono direttamente collegati al reato stesso. Ma, come abbiamo visto, per la Suprema Corte questa misura cautelare non è attuabile in riferimento a profitti conseguiti commettendo reati fiscali, poi investiti in criptovalute.

Concludendo, con la sentenza n. 1760 la Cassazione ha quindi stabilito l’insequestrabilità del valore convertito da euro a monete digitali, lasciando spazio – di fatto – all’escamotage dell’investimento in wallet digitali in Bitcoin per evitare le conseguenze patrimoniali dei reati tributari e per proteggere, non illegalmente, i proventi dell’evasione fiscale. Potrà seguire anche la sentenza di condanna, ma i ricavi illecitamente realizzati resteranno nella disponibilità dell’evasore fiscale.





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