Qualcosa non quadra, Donald. I dazi non servono, è il dollaro la causa dei deficit commerciali in Usa

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Stare pronti e prepararsi all’impatto. È questa la linea dominante a Bruxelles e in tutte le cancellerie europee dopo la nuova minaccia arrivata da Donald Trump il primo giorno dopo l’insediamento alla Casa Bianca. Il nuovo presidente americano sembra intenzionato a recitare il copione del primo mandato, avviando una guerra commerciale con l’Unione Europea a colpi di tariffe e barriere. “L’Ue è molto cattiva con noi. Ci trattano molto male. Non ci prendono le auto o i prodotti agricoli. In realtà, non prendono molto”, ha detto il presidente degli Stati Uniti, aggiungendo, “quindi sono buoni per i dazi doganali”. Già durante la sua campagna presidenziale, Trump aveva denunciato il deficit commerciale degli Stati Uniti con l’Unione Europea, paragonando il blocco a “una piccola Cina” che “trae profitto” dalla principale potenza economica mondiale. “Abbiamo un deficit commerciale con l’Ue di 350 miliardi di dollari”, ha insistito martedì, “la Cina è aggressiva ma non è solo la Cina. Anche altri paesi sono grandi aggressori”.

La storia, in effetti, è trita e ritrita. Il teorema trumpiano parte dall’ipotesi che i Paesi europei sottraggono valore all’economia americana con i loro surplus commerciali (esportazioni maggiori delle importazioni) per svariate centinaia di miliardi di dollari. E arriva alla tesi che per rimettere in equilibrio la bilancia commerciale, i dazi all’ingresso nel mercato statunitense renderanno le merci europee più costose, inducendo così i consumatori americani ad acquistare prodotti made in Usa, diventati così competitivi.

Partiamo dall’ipotesi: i numeri forniti da Trump sono campati in aria. I dati dicono altro, e confermano la lettura della Commissione Europea che ha replicato alla Casa Bianca: “I fatti sono che l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno punti di forza complementari. Abbiamo quindi un surplus nel commercio di beni per noi e un deficit nel commercio di servizi. Non commenteremo in alcun modo le dichiarazioni rilasciate ieri dal Presidente Trump”, perché “la nostra priorità è impegnarci in modo costruttivo con la nuova amministrazione e, parallelamente, siamo pronti a difendere i nostri legittimi interessi qualora ciò si rendesse necessario”, ha detto il portavoce della Commissione Ue, Olaf Gill.

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Resta il fatto che l’Unione Europea è nel mirino, in particolare la Germania, che ha il più alto surplus commerciale con gli Stati Uniti. Dal primo mandato Trump in poi, in effetti, il surplus commerciale dell’Ue con gli Stati Uniti è sempre cresciuto. Esclusa l’energia, che negli ultimi due anni ha visto crescere la quota di importazione dagli Usa, soprattutto nel caso del gas naturale liquefatto che ha sostituito in parte le importazioni dalla Russia, il deficit commerciale tra Usa e Ue supera quello tra Usa e Cina. Per questo Trump ripete spesso che Pechino “non è l’unico nemico”. 

Nel 2018, durante il primo mandato, le tensioni commerciali tra Ue e Stati Uniti sono aumentate a dismisura. Gli Usa hanno imposto tariffe del 25% e del 10% sulle importazioni di acciaio e alluminio dall’Ue per motivi di sicurezza nazionale, contro cui l’Ue ha reagito. A luglio 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker aveva raggiunto un accordo politico con il presidente Trump per evitare un’ulteriore escalation sul fronte tariffario, stabilito in una dichiarazione congiunta Ue e Usa. Successivamente si sarebbe dovuto aprire un tavolo negoziale che però non ha poi portato a nulla, fino all’uscita di scena di Trump 

Certamente, in caso di guerra commerciale, l’Ue sarebbe quella che ne patirebbe di più le conseguenze. Perché l’economia del vecchio continente è più aperta agli scambi, con un commercio extra-Ue pari a circa il 45% del Pil, contro una quota del 25% e del 35% nel caso di Stati Uniti e Cina. Ma come detto il teorema di Trump parte da un deficit di 350 miliardi nei confronti dell’Europa, che è pura fiction: nel commercio di soli beni e merci, il deficit americano non arriva a 190 miliardi di dollari. Inoltre gli Usa vantano un surplus sui servizi di oltre 100 miliardi nei confronti dell’Ue. 

Nell’improvvisato teorema trumpiano, smontata l’ipotesi di partenza, resta la tesi ancora più azzardata: con i dazi il Tesoro americano farà giustizia, facendo salire i prezzi dei beni importati e rilanciando così la produzione e il consumo di beni prodotti sul suolo americano. Il problema di fondo, se di problema si tratta, è annoso: gli Stati Uniti gestiscono deficit commerciali con il resto del mondo a partire dagli anni ’70. Più o meno da quando gli accordi di Bretton Woods sono andati in soffitta. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, infatti, ci si accordò sul nuovo sistema monetario internazionale che sancì il ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale, l’ancoraggio all’oro a un prezzo di 35 dollari l’oncia e la sua convertibilità aperta a tutti i Paesi che detenessero dollari e intendessero cambiarli in metallo prezioso. Negli anni ’60 però la continua richiesta di oro ne mise a rischio la convertibilità col dollaro, inducendo così nel 1971 l’allora presidente Richard Nixon a dichiarare finita l’era di Bretton Woods. 

In virtù del ruolo che si era guadagnato negli scambi globali, il dollaro restò la valuta di riserva internazionale, forte quasi quanto l’oro alimentando la domanda di valuta e titoli statunitensi da utilizzare sia come mezzo di scambio internazionale che come riserva di valore. Un articolo della Federal Reserve di St Louis di qualche anno fa spiega bene come il ruolo del dollaro nel commercio globale sia la vera causa dei persistenti deficit commerciali registrati dagli Stati Uniti. Dovuti al fatto che gli Usa hanno potuto acquistare beni dal mercato mondiale semplicemente stampando denaro o emettendo debito. Debito che infatti ha raggiunto soglie monstre tanto nel pubblico quanto nel privato. Come hanno sottolineato gli economisti Brian Reinbold e Yi Wen della Fed di St Louis, insomma, “l’attuale sistema monetario internazionale, basato sul dollaro statunitense come valuta di riserva mondiale dominante e sui titoli di Stato statunitensi come riserva di valore più ricercata, è la causa principale dei persistenti deficit commerciali negli Stati Uniti”.

Né tantomeno una guerra commerciale sarebbe in grado di rilanciare l’occupazione in quei settori che producono i beni importati oggetto delle tariffe. Perché il calo degli impieghi nei settori ad alta intensità di manodopera è scaturito dallo spostamento del vantaggio comparato nella produzione di beni, che ha causato “la riallocazione della produzione ad alta intensità di manodopera dagli Stati Uniti a nazioni con manodopera più economica”. La delocalizzazione che Trump conosce bene, così come la conosce il suo braccio destro Elon Musk che in Cina ed Europa ha investito in gigafactory per la produzione di auto elettriche Tesla. 

La posizione di Trump nei confronti dell’Ue appare perciò pretestuosa, perché il deficit commerciale americano è una caratteristica intrinseca del suo sistema economico derivante dal ruolo della sua valuta come mezzo di regolazione degli scambi commerciali e come riserva internazionale, e di quello dei suoi titoli di Stato che rappresentano una fonte di liquidità immediata e affidabile in tutto il mondo. Basti pensare che nel 2023, gli Stati Uniti hanno registrato un disavanzo commerciale totale pari a 773,4 miliardi di dollari, nei quali i 190 miliardi di deficit con l’Ue rappresentano una minima parte. Ma sono debitori in tutte le principali misure della loro posizione esterna: capitale, debito, investimenti diretti esteri eccetera. Un indicatore macroeconomico chiave è il Niip, la posizione patrimoniale netta di un dato Paese sull’estero, ovvero un quadro della posizione finanziaria netta (attività meno passività) di un paese nei confronti del resto del mondo. Racchiude tutte le consistenze al suo interno, è connessa alla bilancia commerciale e nelle passività include inoltre debito pubblico e privato, così come i debiti presso privati e istituzioni pubbliche contratti dai suoi residenti, parimenti lo stesso discorso interessa gli attivi. L’indicatore Niip era pari a -22,52 trilioni di dollari alla fine del secondo trimestre del 2024.  Le passività, d’altronde, misurano gli asset americani detenuti da investitori esteri, in dollari, e quindi rappresentano anche un segnale di fiducia nei confronti della valuta e dell’economia americana, al momento incrollabili, nonostante la montagna di debito pubblico che grava sulle casse della Casa Bianca. E infatti la capacità di attrarre enormi flussi di capitali stranieri nella sua economia sterilizza in parte gli effetti dell’enorme deficit commerciale sulla svalutazione del dollaro. Così come la forza e la reputazione internazionale della valuta mette al riparo l’economia americana da crisi del debito, che ha raggiunto livelli astronomici. 

A maggior ragione, visto com’è andata durante il primo mandato e quanto poco i dazi verso l’Ue abbiano portato in termini di vantaggi, l’esperienza dovrebbe suggerire a Trump che le tariffe non serviranno a nulla se l’intento è riequilibrare la sua bilancia commerciale e rilanciare i settori ad alta intensità di manodopera nell’economia americana. Anzi: quando i lavoratori vengono spinti fuori dai settori dell’agricoltura e della produzione di beni, perché delocalizzata dove la produttività aumenta a fronte di salari più bassi, allora “entrano nel settore dei servizi”, hanno scritto Wen e Reinbold. “Questo fenomeno di cambiamento strutturale (causato dalla crescita tecnologica) è osservato in tutte le nazioni industrializzate con successo”.

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Più che altro, l’ostinazione di Trump fa pensare a mosse propagandistiche buone solo per essere vendute all’elettorato, mentre dall’altro lato finisce per favorire quel sistema che a parole dice di voler contrastare. La presenza al giuramento in pompa magna dei signori della Silicon Valley offrirebbe così un’istantanea dell’intento conservatore del tycoon: difendere il potere delle multinazionali dei servizi anche a costo di far del male alla produzione manifatturiera dei propri partner, ma tenendo al tempo stesso a bada il proprio elettorato con politiche populiste e deleterie.



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