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di Adolfo Tasinato

 

Come gli algoritmi stanno uccidendo il giornalismo di qualità

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Nel vortice dell’era digitale, mentre i giganti tecnologici celebrano il trionfo degli algoritmi e la velocità dell’informazione istantanea, si consuma silenziosamente una debacle culturale di proporzioni notevoli. Il giornalismo di qualità, quello che per generazioni ha formato il pensiero critico e alimentato il dibattito democratico, sta morendo almeno nella sua concezione consolidatasi lungo decenni. Non è un’estinzione naturale, ma un’esecuzione orchestrata dalla dittatura del click, dall’ossessione per le metriche e dalla tirannia dell’engagement a tutti i costi.

I numeri parlano chiaro e sono impietosi. Secondo l’ultimo report AGCOM del 2024, le vendite dei quotidiani cartacei in Italia hanno registrato un crollo vertiginoso: 1,31 milioni di copie vendute giornalmente, con una flessione del 9% su base annua e un pesante -29,4% rispetto al 2020. In soli quattro anni, una copia su tre è svanita nel nulla. Ma il vero dramma non è tanto nella morte della carta stampata, quanto in ciò che la sta sostituendo: un’informazione frammentata, superficiale e manipolata, governata da software che non conoscono il significato della parola “approfondimento”.

La grande illusione della democratizzazione dell’informazione attraverso il digitale si è trasformata in un incubo distopico. Mentre i social media promettevano di dare voce a tutti, hanno finito per creare una cacofonia assordante dove la verità si perde nel rumore di fondo. Le piattaforme digitali, con i loro algoritmi voraci, non cercano la qualità dell’informazione, ma inseguono ossessivamente il coinvolgimento degli utenti, trasformando le notizie in merce di consumo usa e getta.

L’algoritmo è il nuovo editore

Nel 2025, l’algoritmo è diventato il vero editore dei nostri tempi. Non è un editore illuminato che cerca di elevare il dibattito pubblico, ma un freddo calcolatore che misura il successo in termini di secondi di attenzione catturati. Le redazioni tradizionali, un tempo bastioni del giornalismo investigativo e dell’analisi approfondita, si trovano ora a rincorrere gli umori più bassi della rete, in una disperata ricerca di click e condivisioni.

La tragica ironia è che questo sistema non sta solo eliminando il giornalismo di qualità, ma sta anche minando le fondamenta stesse della democrazia informata. Quando l’informazione viene ridotta a uno stream infinito di titoli sensazionalistici e video virali, la capacità dei cittadini di comprendere la complessità del mondo si atrofizza. Le notizie vengono consumate come snack veloci, senza masticazione, senza digestione, senza assimilazione.

Ci sono politici italiani che si sono ben adeguati a questo tipo di comunicazione, uno è Renzi molto abile a creare slogan e frasi ad effetto buone per i social che però non gli portano il consenso sperato ma la politica, per fortuna, ancora non è la vendita di pentole in Tv.

Fanno bene i partiti politici a presidiare i nuovi canali di comunicazione perché se è vero che non si vincono le elezioni con i social e la comunicazione, senza si perde facilmente, vanno però battute anche altre strade che rafforzino e stabilizzino il coinvolgimento consapevole ed il senso di appartenenza a valori e idee se non proprio a ideologie.

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La dittatura della velocità

La velocità è diventata il nuovo Dio dell’informazione digitale. Non c’è più tempo per verificare le fonti, per approfondire i contesti, per analizzare le implicazioni. L’importante è essere i primi, anche a costo di essere imprecisi o, peggio ancora, di diffondere falsità. I social media hanno creato una generazione di lettori con il pollice veloce e la mente distratta, pronti a scrollare all’infinito ma incapaci di concentrarsi su un articolo più lungo di poche righe.

Questa cultura della velocità ha creato un terreno fertile per la manipolazione dell’informazione.

Chi controlla gli algoritmi controlla di fatto ciò che miliardi di persone vedono e pensano. I colossi digitali come Meta hanno acquisito un potere senza precedenti nella storia dell’umanità: la capacità di plasmare la percezione della realtà su scala globale. E vi raccomando i siti cosiddetti di fact checking, quelli che dovrebbero dirci se una notizia è vera o falsa, spesso sono nel cerchio magico di chi fa propaganda politica e quindi approvano le notizie che fa loro comodo licenziare come vere ma che del tutto vere non sono.

Media e politica

In questi giorni si è parlato molto del cambio di rotta di Zuckerberg che si è molto avvicinato al neo Presidente Usa Donald Trump tanto da essere presente alla cerimonia di insediamento.

Il padrone di Meta ha deciso di rimuovere i sistemi di filtraggio dei contenuti su Facebook che in molti casi, per la verità, sono sembrati più una forma di censura verso contenuti ritenuti non politicamente corretti. In questo caso abbiamo una mega piattaforma digitale che si allinea con la politica o almeno da a vedere di volerlo fare. Di solito l’immagine che si ha è quella della politica che diventa subalterna alle grandi potenze del digitale, in ogni caso è la testimonianza di un cambiamento epocale che lascia ai margini la buona informazione.

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C’è da dire e lo sottolineo che lo stesso Zuckerberg ha confermato che il sistema di monitoraggio delle notizie è stato sollecitato dal governo USA sotto la presidenza Biden e che il 90% degli addetti al fact checking erano persone schierate a sinistra  che quindi agivano in base ad un pregiudizio verso i post favorevoli alla destra! Sarebbe forse il caso che le piattaforme social facessero il loro mestiere invece di filtrare le informazioni svolgendo il ruolo di media center che non gli compete.

Vogliamo parlare invece del giornalismo televisivo? Quello dei talk-show dove il dibattito su argomenti importanti è continuamente interrotto da stacchi musicali, spot pubblicitari e duelli verbali di pochi secondi che servono a fare spettacolo senza che resti nulla o quasi nelle menti del cittadino spettatore, anche perché molti di loro guardano la Tv con gli occhi rivolti allo smartphone!

Un sistema che si autoalimenta

Il paradosso più amaro è che questo sistema si autoalimenta. Più l’informazione diventa superficiale, più si abbassa la capacità di attenzione dei lettori. Più si abbassa l’attenzione, più i contenuti devono essere semplificati e sensazionalistici per catturarla. È un circolo vizioso che sta portando a una progressiva desertificazione del panorama informativo.

I quotidiani tradizionali, nel frattempo, continuano a stampare copie che pochi leggono, aggrappandosi a un modello di business obsoleto sostenuto artificialmente dalle sovvenzioni pubbliche. Non è solo uno spreco di risorse, è il simbolo di un’élite che si rifiuta di accettare il cambiamento, preferendo mantenere una facciata di pluralismo piuttosto che affrontare la vera sfida: reinventare il giornalismo di qualità nell’era digitale.

Può essere giusto che lo Stato supporti la Stampa ma allora perché non stabilire che chi prende finanziamenti pubblici debba diffondere gratuitamente il proprio prodotto magari a certe categorie di cittadini se non a tutti?

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Per  un futuro sostenibile dell’informazione

La soluzione non è tornare nostalgicamente al passato, né arrendersi alla dittatura degli algoritmi. È necessario un nuovo modello che sappia coniugare la velocità e l’accessibilità del digitale con la profondità e l’accuratezza del giornalismo tradizionale. Un modello che metta al centro la qualità dell’informazione e la formazione di cittadini consapevoli, non la monetizzazione dell’attenzione.

Questo richiede un ripensamento radicale non solo delle strutture economiche che sostengono l’informazione, ma anche del modo in cui consumiamo le notizie. È necessario educare i lettori a riconoscere il valore dell’analisi e dell’approfondimento, a resistere alla tentazione della superficialità, a comprendere che la vera informazione richiede tempo e impegno.

A questo scopo torna fondamentale il ruolo del giornalista con la sua attività di verifica delle fonti, di approfondimento, di inchiesta che possa costituire un punto di riferimento per chi vuole approfondire le notizie e gli argomenti. Anche la formazione riveste un ruolo fondamentale per il giornalista al tempo dei social, essere giornalisti oggi significa navigare tra un mare di informazioni, distinguere il vero dal falso e interpretare le sfumature di contesti sempre più complessi.

Questo richiede non solo una solida preparazione tecnica, dall’uso degli strumenti digitali all’analisi dei dati, ma anche una formazione etica che aiuti a preservare la fiducia del pubblico. La curiosità innata e il talento narrativo, da soli, non bastano più: è fondamentale investire in un apprendimento continuo, capace di adattarsi alle nuove sfide e tecnologie che stanno ridefinendo il mestiere di giornalista.

La sfida è epocale, ma la posta in gioco è troppo alta per arrendersi. Il futuro della democrazia dipende dalla capacità di preservare uno spazio per l’informazione di qualità in un mondo dominato dagli algoritmi e degli automatismi. È tempo di scegliere: continuare a scivolare verso l’abisso della superficialità o iniziare a costruire un nuovo modello di giornalismo all’altezza delle sfide del nostro tempo.

La crisi dei media tradizionali non è solo una crisi economica o tecnologica: è una crisi di civiltà e la risposta non può venire dagli algoritmi, ma da una rinnovata consapevolezza del valore dell’informazione come bene pubblico essenziale per la società. Il tempo stringe e le scelte che faremo oggi determineranno il futuro non solo del giornalismo, ma della nostra capacità di comprendere e interpretare il mondo che ci circonda.

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