L’ipocrisia dilaga e l’ingenuità popolare si espande. In mezzo, l’indignazione di paglia utile soltanto a sfogare un rutto momentaneo. L’ipocrisia riguarda la politica. Quando si fanno le nomine c’è sempre un calcolo tattico o strategico finalizzato a rafforzare il potere pro-tempore. Gli esponenti politici della maggioranza del momento non fanno altro che applicare la regola non scritta vigente da sempre: ora la nave la guido io e imbarco chi mi pare. Più volgarmente significa “Articolo quinto: chi tène ‘mmano ha vinto”. L’ingenuità e l’indignazione di paglia riguardano la solita critica che si solleva dai social o da qualche esponente dell’opposizione. Critica destinata a durare tre giorni senza che la regola venga abolita. Ce lo insegnerebbe la storia ma quell’insegnamento finisce sempre nel vuoto.
Le nomine negli enti sub regionali, nei dipartimenti della Regione, nelle aziende partecipate sono sempre oggetto di accordi all’interno della maggioranza pro-tempore. Questo a me, questo a te. Questo lo spostiamo da qui a lì e così via. Il che non vuol dire necessariamente che i nominati siano degli incompetenti tout-court, certamente sono parte dello scacchiere di potere e fedeli scudieri del “vassallo” di turno. E’ così che funziona. Le persone nominate appartengono all’equipaggiamento politico e amministrativo del potere pro-tempore: sono funzionali al rafforzamento di quel potere.
Tuttavia, le nomine, sia chiaro, interessano anche un altro potere: quello economico e imprenditoriale. Il fatto che a capo di un ente, di un’agenzia o di un dipartimento ci sia Tizio anziché Caio, non è marginale. Possono saltare o consolidarsi vecchie relazioni e consuetudini. Possono cambiare i destinatari degli affidamenti diretti, può rovesciarsi l’approccio alle reciproche compiacenze e convenienze.
E qui veniamo a un’altra questione, legata mani e piedi, all’argomento che stiamo trattando. Nel mondo, specie occidentale, siamo in presenza di un divorzio, per dirla con Zygmunt Bauman, tra potere e politica. “i poteri sono affrancati dal controllo politico, e la politica è ormai priva di potere.” E’ la crisi del binomio tra potere (capacità di far eseguire diverse cose) e politica (decidere quali cose fare). Bauman per potere intende i mercati finanziari, i padroni delle tecnologie digitali, dell’AI e di tutti gli oligopoli. Il ragionamento del sociologo è più vasto e complesso, ma ne approfitto, semplificandolo, in funzione di questo articolo.
Questo concetto di divorzio non può essere innescato tout-court nella realtà regionale lucana. I poteri economici e imprenditoriali locali, compresi quelli di derivazione esogena quali le multinazionali, non hanno mai divorziato dalla politica locale e viceversa. Seppure la politica nei fatti è indebolita da quei poteri. E non sono nemmeno separati in casa: sono amanti per convenienza. Il potere economico-imprenditoriale ha bisogno della politica e la politica ha sempre più bisogno di quel potere. Anche se, a partire dall’inizio di questo secolo, nella relazione di convenienza comincia a prevalere il peso del potere a discapito della politica.
Dunque, in una società completamente spoliticizzata, il legame “patologico” tra poteri e politica, assume il carattere di un grave pericolo per la démos-krátos, ossia per la partecipazione popolare diretta o indiretta alle decisioni di governo. E quindi, paradossalmente, dovremmo auspicare una separazione netta tra poteri e politica grazie alla quale la Politica torni ad essere ciò che deve essere: “L’amministrazione della “polis” per il bene di tutti, l’affermazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano”.
Tuttavia c’è un problema: sono scomparsi sia i cittadini, come appartenenti a una comunità politica, con i loro doveri e i loro diritti, sia la polis. Sono visibili e attive, invece, le persone identificate non come cittadini, ma come “disoccupato”, commerciante, agricoltore, imprenditore, operaio, cassaintegrato, avvocato, commercialista, editore, ingegnere, farmacista e così via. Tutti agenti per conto di interessi corporativi che contribuiscono alla scomparsa della polis e della politica che amministra per il bene di tutti.
Di fronte alla crisi della rappresentanza politica, e ormai anche sindacale, e alla crisi di fiducia in alcune istituzioni locali, indignarsi, legittimamente, per qualche nomina o per alcuni comportamenti di amministratori locali tipo Telesca e Smaldone è un palliativo. Se proprio ci tenete, non li rivotate, anzi spingete per le dimissioni. Resta un palliativo perché il sistema si riproduce e quindi bisogna “colpire” alla radice.
Ciò che bisogna cominciare a praticare è la coerenza tra parole, pensiero e azione partendo dalla base sociale di quella che resta della cittadinanza. E mi spiego. Imparare ad usare la coscienza è fondamentale. Da un lato ci aiuterebbe ad esercitare meglio la nostra capacità umana di conoscere. Dall’altro, grazie a quella capacità, potremmo usarla in funzione etica e morale affinché emerga quella parte della coscienza che chiamiamo “coscienza morale.” Tutto ciò che ci accade è causa della coscienza ignorante e immorale che potremmo definire incoscienza. Il potere e la politica sottomessa al potere non possono permettersi l’uso morale della coscienza. I cittadini sì, e devono imporla prima a loro stessi e poi al potere e alla politica. Banalmente, se ti offrono un vantaggio immeritato e anche solo vagamente illegittimo rifiuta. Se accetti non potrai mai imporre a quel potente la forza potenziale della tua coscienza. Diventerai titolare di un banchetto al mercato delle coscienze e non potrai fare a meno dei compratori.
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