Germania. Voto del 23 febbraio: il dilemma tra immobilismo e cambiamento

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di Giuseppe Lai

In vista delle prossime elezioni del 23 febbraio in Germania, un recente sondaggio ha messo in luce che, dopo la questione migratoria, l’economia è il problema prioritario per l’elettorato tedesco. Varie proposte avanzate in campagna elettorale come la detassazione degli straordinari, l’aumento del salario minimo a 15 euro e gli incentivi fiscali per le imprese che investono in Germania trovano infatti ampio consenso, superando per importanza questioni storicamente centrali nel Paese come la politica estera e il cambiamento climatico. Tale consenso riflette le difficoltà di due settori cardine dell’economia tedesca: lavoro e imprese. Quattro aziende su dieci stanno pianificando tagli al personale per l’anno in corso e non si intravedono assunzioni per il futuro. Volkswagen, Ford, Bosch, Audi sono alcuni gruppi storici dell’automotive tedesca in crisi ormai da tempo, e in generale tutta l’industria manifatturiera sta attraversando una fase molto problematica.
Per comprendere ciò che gli analisti definiscono “crisi del modello tedesco” è opportuno un breve excursus storico a partire dalla metà degli anni ’90. In quegli anni l’economia tedesca ha sperimentato una trasformazione senza precedenti della contrattazione del lavoro, che ha contribuito a rendere il Paese da “malato d’Europa” a locomotiva del continente. L’attività di negoziazione sindacati-imprese, che definiva orari di lavoro, stipendi e altri aspetti della condizione lavorativa è passata dal livello collettivo nazionale a quello di singola azienda. Questa svolta ha introdotto maggiore flessibilità nelle trattative, consentendo la riduzione del costo del lavoro attraverso la moderazione salariale e migliorando la competitività dell’economia. Le ragioni fondanti di tale discontinuità risalgono al periodo successivo al crollo dell’URSS e specificamente alla fase di riunificazione delle due Germanie. Tale processo ha comportato per il governo dell’epoca onerosi programmi di spesa a sostegno dei redditi dei cittadini, dell’industria in difficoltà e delle infrastrutture arretrate della Germania Est. Per finanziare tali operazioni, le autorità governative hanno fatto ricorso alla tassazione e all’indebitamento, due fattori che, insieme agli alti salari, rendevano elevati i costi per le aziende tedesche in un contesto globale di crescente competizione. Contestualmente le stesse imprese hanno iniziato a sfruttare le nuove opportunità produttive a minor costo dei paesi emergenti dell’Europa centro-orientale. Ciò ha indotto i sindacati tedeschi ad elargire alle imprese una serie di concessioni, soprattutto una riduzione dei salari, nel timore di una perdita di potere contrattuale dovuta al decentramento delle attività industriali del Paese. I benefici del nuovo corso aziende-sindacati si sono consolidati con l’introduzione della moneta unica, che ha contribuito al rafforzamento della competitività delle imprese tedesche sui mercati internazionali. Il marco tedesco era la valuta più forte in tutta Europa e rifletteva la forza reale dell’economia tedesca, a differenza di altri paesi come Spagna e Italia caratterizzate da economie e valute più deboli. Così, mentre per la Germania l’euro rappresentava una valuta più debole del marco e un forte incentivo alle esportazioni, nei paesi europei limitrofi accadeva l’opposto: la moneta unica risultava più forte in confronto alle valute precedenti e alla forza reale delle rispettive economie, creando maggiori difficoltà nelle esportazioni.
Con la crisi finanziaria del 2008-2009, il trend positivo dell’economia tedesca ha subito un rallentamento, ma l’impatto è stato meno grave rispetto ad altri paesi. Infatti, grazie alle riforme del mercato del lavoro l’occupazione è rimasta elevata e la disoccupazione è aumentata solo marginalmente, favorita dalle misure di riduzione dell’orario lavorativo. Ciò ha mantenuto sostanzialmente stabili i consumi privati ed ha contribuito ad attutire gli effetti della crisi.
Per quanto riguarda l’export la crisi finanziaria ha causato una diminuzione delle esportazioni verso il resto dell’Unione Europea, compensato tuttavia dall’aumento del volume di merci dirette verso la Cina, che nel 2016 era il principale partner commerciale per Berlino. I cinesi vendevano in Germania tecnologia di consumo, componentistica a basso costo, tessile e prodotti a ridotto valore aggiunto in grande quantità. I tedeschi ricambiavano con automobili e relativi componenti. Dopo alcuni anni di sostanziale pareggio degli scambi tra i due Paesi, prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina hanno stravolto gli equilibri. Il calo dell’export tedesco verso il Dragone è stato quasi costante dal 2022 in poi e la bilancia commerciale tra i due Paesi si è progressivamente spostata sull’import da parte della Germania.
Allo stato attuale circa il 43% dei settori industriali della Germania dipendono dalle importazioni provenienti dalla Cina. Il mutamento del mercato automobilistico globale si è rivelato cruciale nel determinare questo trend negativo e la causa primaria è la scarsa competitività internazionale dell’automotive tedesco sul piano della qualità e dell’innovazione tecnologica. L’aspetto dell’innovazione in realtà si estende all’intera offerta produttiva che, sotto il profilo qualitativo, è ferma al secolo scorso. Le merci tedesche immesse sul mercato, infatti, sono sempre le stesse: automobili, prodotti chimici e macchine utensili. Quindi, per l’assenza di una politica industriale europea, alla quale i leader tedeschi si sono sempre opposti fermamente fino ad oggi, la Germania, come gli altri paesi dell’Unione, ha perso le sfide dell’innovazione non solo nel settore auto, storicamente trainante per l’economia, ma anche in tutti gli altri comparti ad alto valore aggiunto: dalla microelettronica alla telefonia mobile, dai social network alle tecnologie legate a internet, all’intelligenza artificiale.
Nel frattempo Cina, Corea, Giappone e Stati Uniti, grazie a politiche industriali pubbliche molto attive, conquistano fette sempre più ampie di mercato in questi settori strategici, a scapito soprattutto dell’Europa. I ritardi accumulati dal sistema manifatturiero tedesco possono essere affrontati con investimenti pubblici, oggi impediti dalla normativa che vieta la possibilità di finanziarli con il ricorso al debito. La costituzione tedesca infatti ha adottato nel 2009 una clausola che impone al bilancio pubblico un deficit annuale molto contenuto, pari allo 0.35% del Pil per lo Stato federale. Per i Länder invece i deficit strutturali sono stati completamente vietati a partire dal 2020.
Questa norma, che non esiste in nessun altro Paese avanzato, rende il debito pubblico la preoccupazione più importante alla quale sono subordinati tutti gli altri problemi dell’economia reale. Se però si considera che il rapporto debito/Pil della Germania è di gran lunga il più basso tra i Paesi del G7, con il freno eccessivo al debito la Germania assegna la massima priorità al problema meno urgente. In altri termini, esistono spazi di manovra sul piano dell’indebitamento pubblico, ma è evidente che ciò richiederebbe un cambio di visione, di modo di pensare. Eppure sarebbe un percorso virtuoso, poiché darebbe avvio agli investimenti sulla ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, essenziali alla luce dei mutamenti in atto. La strada è tutt’altro che lineare. Tale cambiamento si configura come un’inversione di rotta rispetto alla mentalità di un Paese storicamente ingessato nel ruolo di custode del rigore fiscale, di fermo sostenitore di quel principio di austerità, che del resto ha influenzato anche il resto dell’Europa. Ma proprio questo dilemma tra immobilismo e cambiamento sarà il banco di prova cruciale per il prossimo governo.

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