Dalla cerimonia di insediamento e dal discorso di Donald Trump emergono quattro grandi questioni.
La prima. Il capitalismo finanziario ha ormai fagocitato ogni declinazione possibile di destra; dai neocon, ai seguaci di Javier Milei, alle cosiddette destre antisistema, che hanno deciso di soggiacere all’impero di Trump, insieme agli uomini più ricchi del Pianeta, combinando in maniera incredibile nella stessa narrazione plutocrazia e ribellione sociale.
La seconda. La posizione di Giorgia Meloni non è definibile nei termini dell’atlantismo perché la visione di Trump non è atlantista ma caratterizzata da un americanismo assoluto, al di fuori di ogni condivisione con l’Europa e di ogni ostilità nei confronti di “imperi del male”, perché per Trump l’unico vero impero del male è individuabile nelle democrazie liberali.
La terza. Per Trump il principale valore è individuato in un viscerale nazionalismo, assoluto, che, appunto, non è conciliabile con qualsiasi ipotesi di multiculturalismo tipico delle democrazie liberali. La nazione di Trump non ha nulla a che fare con l’illuminismo, con l’idea di adesione volontaria, e considera proprio le democrazie liberali come il principale avversario della nazione. In questo, il lessico di Trump è quello delle nuove destre e la solitaria presenza di Giorgia Meloni al rito dell’incoronazione testimonia quanto nel suo codice di appartenenza non possa trovare spazio la lealtà nei confronti della Costituzione italiana.
L’ultima. Il discorso di Trump è infarcito di richiami alla libertà che, a differenza del liberalismo, non è coniugabile nella sua visione con la tutela dei diritti individuali. Per il nuovo presidente la libertà vale solo per la nazione identitaria, fondata sul sangue -e sulla ricchezza-, escludendo tutto il resto. La retorica della libertà americana si traduce nel più feroce egoismo in cui il diritto e i diritti non hanno alcuno spazio.
Di fronte a questa narrazione ideologica, penso che sarebbe necessario, davvero, attrezzarsi anche perché Trump corre e la sua visione risulta sempre più chiara.
Con un dei tanti ordini esecutivi ha portato fuori gli Stati Uniti dall’accordo internazionale sulla tassazione finanziaria, abbandonando la “Global minimun tax” al suo destino. Tale forma di imposizione era già nata molto debole con un’aliquota, ridicola, del 15%, ma ora è definitivamente defunta. Trump, con un simile atto, ha sancito la feroce ripresa della deregolamentazione finanziaria, definendo a tutti gli effetti gli Stati Uniti come un paradiso fiscale, e non solo nello Stato del Delaware. Le società con sede fiscale negli Stati Uniti, di fatto, non pagheranno imposte e le loro filiazioni, presenti negli altri Paesi, a cominciare dall’Unione europea, non saranno tenute a pagare alcuna imposta perché, se fossero costrette a farlo, quei Paesi incorrerebbero subito in misure ritorsive da parte degli Stati Uniti, a cominciare da pesanti dazi doganali.
Con questo ordine si esaurisce qualsiasi reale possibilità di tassare le rendite finanziarie globali, si scatena una vera e propria competizione tra i paradisi fiscali e gli Stati Uniti diventano, ancora di più, terra di destinazione del risparmio gestito e dei capitali del resto del mondo, quantomeno di quello “occidentale”. A tale provvedimento si legano due altri aspetti che si muovono nella stessa direzione, con una specificità.
Il primo aspetto riguarda le criptopvalute. Trump ha dichiarato e ha dimostrato che le criptovalute troveranno negli Stati Uniti la propria terra di elezione: in altre parole, con la nuova presidenza, le criptovalute non incontreranno regole o vincoli e con Paul Atkins alla Securities and exchange commission (Sec) diventeranno un formidabile strumento di speculazione, alimentando anche il già gigantesco sistema di strumenti volti a scommettere.
Anche in questo senso, l’America di Trump diventa una colossale Las Vegas per creatori e compratori di criptovalute in grado di attrarre risparmi da ogni parte del mondo, persino senza il filtro dei “padroni del mondo”, dei grandi fondi, la cui intermediazione Trump manifesta di volere ridurre. Dunque, gli Usa saranno il paradiso fiscale e il casinò finanziario più grande di sempre.
Il secondo aspetto è relativo all’Intelligenza artificiale. Trump ha annunciato di voler indirizzare enormi risorse pubbliche al progetto “Stargate”, una joint venture che lega OpenAI, Oracle, Softbank e il governo federale; un progetto che sarà in grado di spazzare via ogni futura concorrenza europea e di mettere in crisi il resto del mondo.
È interessante rilevare -è questa la specificità a cui si accennava- che gli azionisti di Oracle, in particolare Larry Ellison che detiene il 41% della società, e di Softbank, dove è particolarmente forte la proprietà giapponese, non contemplano, se non in minima parte i tre grandi fondi BlackRock, Vanguard e State Street. È evidente in tal senso l’idea di Trump di privilegiare la cordata Elon Musk, Peter Thiel, Reid Hoffman e Greg Brockman, suoi sodali e fedeli, contro gli attuali dominatori del settore come Nvidia, Microsoft e Arm. La guerra finanziaria al mondo è cominciata, e anche quella interna al capitalismo finanziario.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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