Darwin, Nevada – un progetto di Marco Paolini, regia Matthew Lenton – Jolefilm

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una produzione Piccolo Teatro di Milano
con Teatro Stabile di Bolzano, Emilia Romagna Teatro ERT, Vanishing Point, Jolefilm,
in collaborazione con La Fabbrica del Mondo

PRIMA ASSOLUTA

Al Piccolo Teatro Strehler, dal 22 gennaio al 16 febbraio

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Marco Paolini compone narrazioni, Matthew Lenton crea teatro d’immagini e visioni. Darwin, Nevada è la loro creazione originale, in prima assoluta, al Teatro Strehler, dal 22 gennaio al 16 febbraio 2025. Seguendo le tracce di Charles Darwin, sullo sfondo di una sperduta ghost town americana che porta lo stesso nome dello scienziato, cinque personaggi intrecciano le loro esistenze in un racconto di frontiere, spostamenti e migrazioni, di frammenti di storia della scienza, di conflitti e cambiamenti in corso.

Un racconto on the road intorno alla migrazione delle specie
e al rischio di estinzione del pensiero scientifico.

Nei sondaggi effettuati da Gallup, all’inizio degli anni 2000, alla domanda “da quanto tempo l’uomo si trova sulla terra?”, il 45% degli americani ha risposto che è stato creato nella sua forma attuale circa 10.000 anni fa. Un ulteriore 40% ha sostenuto invece che si è evoluto nell’arco di milioni di anni da forme di vita meno avanzate, ma sotto la guida di Dio.

Nello stesso periodo, nel 2001, venivano rubati dalla biblioteca di Cambridge i preziosi quaderni di Charles Darwin, i taccuini in cui lo scienziato aveva iniziato ad annotare le riflessioni che lo avrebbero condotto a formulare la teoria dell’evoluzione. Vent’anni dopo, nel 2022, i quaderni venivano misteriosamente restituiti, in una busta, con su scritto “Librarian/HappyEaster/x”.

Chi ha rubato (o preso in prestito…) i preziosi libriccini, frutto di un viaggio di 200 anni fa, dalla Patagonia alle Galapagos, che diedero origine a una delle più controverse rivoluzioni scientifiche?
Darwin, Nevada è un racconto di frontiere, di spostamenti e migrazioni, di piaceri e preziosi frammenti di storia della scienza, di conflitti e cambiamenti in corso. Intrecciando i loro linguaggi, Matthew Lenton e Marco Paolini danno vita a una storia del presente, di cui Charles Darwin è il carburante, i personaggi sono il motore e i paesaggi sono il telaio e la carrozzeria.

Volendo servirsi di un popolarissimo adagio, riformulato per l’occasione, il teatro è l’arte dell’incontro. Vitale crocevia di esperienze e saperi, di linguaggi e universi disciplinari, di “grammatiche” e codici. Ponte tra sensibilità e sguardi artistici differenti. E naturalmente luogo di una compresenza fisica che dilata le possibilità di relazione con il pubblico. Darwin, Nevada è un’esemplare testimonianza di questa vocazione dialogica della pratica scenica. Convivono, nello spettacolo, la prodiga capacità affabulatoria di Marco Paolini, la sua perizia artigianale nel plasmare un racconto contagioso, in cui la parola vortica e danza liberamente, e il lavoro del regista britannico Matthew Lenton, di rara suggestione visiva, dal registro onirico, in bilico tra drammatico e post-drammatico.

Il rabesco di storie si sposa a una ricercata partitura di immagini, estrosa e lunare, dando vita a una miscela espressiva che ha nella rivoluzione darwiniana il punto d’avvio per condurre l’arte teatrale ad avventurarsi lungo i sentieri della scienza, nel segno di una felice dialettica. Tra movimentati viaggi nel tempo ed enigmatiche odissee nei labirinti della mente, con levità e humour, la narrazione illumina nodali criticità del nostro presente, relative in particolare alla crisi climatica e al rapporto tra conoscenza e informazione. Così facendo, sul filo di una genuina tensione comunicativa intergenerazionale, si dimostra all’altezza del compito che il Calvino delle Lezioni americane attribuiva alla letteratura (e che, dunque, può valere anche per il teatro): «Da quando la scienza diffida dalle spiegazioni generali e dalle soluzioni che non siano settoriali e specialistiche, la grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo».

Claudio Longhi

Darwin, un antieroe in guerra con sé stesso
Conversazione con Marco Paolini (estratti dal programma di sala dello spettacolo)

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Marco Paolini, perché uno spettacolo dedicato a Darwin?

Dopo aver portato in scena Galileo [ITIS Galileo, allestito anche al Teatro Strehler nella stagione 2012/13] desideravo raccontare un altro capitolo della scienza. Galileo però è italiano e in qualche modo la sua storia, benché più remota nel tempo, non è così lontana da noi. Per di più, gli sono stati dedicati testi e film – vale per tutti il precedente di Bertolt Brecht – mentre ho trovato scarsi esempi di riduzioni cinematografiche relative a Darwin e poco o niente di teatrale. Inoltre, gli avversari di Galileo sono ben identificabili al di fuori di lui, mentre la vicenda di Darwin è più spigolosa, perché meno esplicitamente raccontabile come un conflitto… Per tutti questi fattori, avevo davvero voglia di parlarne in uno spettacolo. Ne ho discusso con Telmo Pievani e insieme siamo andati a cercare sia James Moore – che uno è tra i maggiori studiosi della vita e dell’opera di Darwin – sia Niles Eldredge, il paleontologo statunitense che, insieme a Stephen Jay Gould, ebbe la possibilità di visionare per primo i celebri taccuini dello scienziato e di approfondirne la personalità. Darwin vive un conflitto con se stesso, un malessere che “lavora” dentro di lui per vent’anni. È come se, prima ancora di rendere pubbliche le proprie scoperte, avesse presentito il fastidio per il frastuono che il suo lavoro avrebbe scatenato e ne avesse anticipato tutte le possibili strumentalizzazioni: aveva previsto le conseguenze che un pensiero in fondo così poco consolatorio avrebbe avuto non soltanto sull’opinione pubblica, ma soprattutto sulle persone a lui care. Portare in scena la storia intima di come nasce una rivoluzione scientifica non significa sostenerla davanti ai suoi detrattori – anche se oggi avremmo mille ragioni per farlo… – ma scegliere di raccontare la genesi di un’idea complessa, cioè come la nostra mente, con tutti i suoi limiti, possa concepire un pensiero in grado di mettere in discussione tutto quello che abbiamo studiato e che i nostri autorevoli amici credono essere vero. È assai complesso immaginare il travaglio di un’idea simile, ragion per cui, nello spettacolo, essa, a un certo punto, prende la forma di un uovo: diviene qualcosa che bisogna deporre. Temendo che una biografia di Charles Darwin avrebbe coinvolto e interessato soltanto persone già informate, siamo andati in cerca di un possibile modo di raccontare tutto questo adattandolo a un contesto contemporaneo, creando, cioè, storie capaci di intercettare la curiosità e l’interesse di pubblici di età diverse. Siamo partiti da un pretesto: il furto dei taccuini di Charles Darwin, avvenuto venticinque anni fa all’Università di Cambridge e misteriosamente conclusosi con la loro restituzione, circa vent’anni dopo, senza alcun indizio rispetto a cosa fosse accaduto nel lungo tempo intercorso. Noi abbiamo provato ad avanzare un’ipotesi e ne abbiamo fatto lo spunto narrativo del nostro viaggio. Dove ci siamo diretti? Là dove le teorie di Darwin sono forse meno accettate, ovvero in quel mondo protestante e conservatore che costituisce anche il blocco di elettori dominante della potenza economica e militare più forte del pianeta.

Perché è davvero curioso riscontrare come gli Stati Uniti – che, se pur con sempre maggiore fatica, continuano a svolgere un ruolo ancora centrale per il pianeta – abbiano al loro interno una schiacciante maggioranza di persone che preferiscono usare la Bibbia come testo scientifico, ricusando non solamente i testi di Charles Darwin, ma tutto ciò che ne è scaturito: le ricerche sulla fisiologia della mente e del corpo umano e gli approfondimenti intorno alla relazione tra uomo e natura che ci hanno portato a ridimensionare sensibilmente il nostro antropocentrismo.

Veniamo al secondo filone narrativo: due ragazze stanno attraversando su un camper il deserto del Nevada, dopo essere state travolte da un’alluvione. Da dove nasce questo spunto?

In mezzo al deserto del Nevada, ogni anno si tiene il Burning Man Festival, una manifestazione che raccoglie disciplinatamente decine di migliaia di persone, in maggioranza giovani, che provengono da varie parti degli Stati Uniti, e, per un periodo di tempo limitato, scelgono di vivere insieme, di sostituire il denaro con il baratto, di condividere esperienze e creare una comunità ideale, forse dal profilo un po’ New Age. Durante l’edizione del 2023 piovve in maniera abnorme. Noi abbiamo fatto coincidere quell’episodio con la nostra narrazione, perché, in effetti, seguiva di poco la restituzione dei taccuini di Darwin [avvenuta il giorno di Pasqua del 2022, ndr]. Abbiamo quindi utilizzato una storia inventata per raccordare tra loro due elementi di cronaca, e per parlare così del passato giocando, nello stesso tempo, con l’attenzione del pubblico.

Dopo tante ricerche e tanto lavoro, che idea ti sei fatto di Charles Darwin?

Per me è un antieroe, ma è soprattutto qualcuno che esorta a tacere. Esiste una celebre fotografia che lo ritrae molto anziano, capelli bianchi e barba fluente candida, mentre, con l’indice sulle labbra, sembra invitare a far silenzio. Sembra che ci voglia dire «prima de parlar, tase!», «prima di parlare, studia!». Mi piace che non abbia il physique du rôle di chi ha sempre l’argomento pronto per tappar la bocca all’avversario. Amo la sua antiretorica, perché mi ricorda Pasolini che, quand’era intervistato, abbassava la testa e prendeva del tempo, prima di rispondere. Oggi, in quello spazio di riflessione infilerebbero tre spot pubblicitari… Rivendico quel suo non essere a tutti i costi “un intellettuale sul pezzo” perché anche io, quando mi viene chiesto di pronunciarmi su qualcosa che non so, esercito il diritto di tacere. Darwin in questo è un maestro.

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Pensare e riflettere, senza perdere di vista la fantasia e il sogno
Conversazione con Matthew Lenton (estratti dal programma di sala dello spettacolo)

Matthew Lenton, chi è per te Charles Darwin?

Quando ho sentito per la prima volta parlare di questo progetto, Charles Darwin, per me, era una specie di vecchio amico, qualcuno che viene da un tempo molto lontano e di cui ricordavo di aver vagamente sentito parlare a scuola. La maggior parte di noi lo conosce come lo scienziato che ha fondato la teoria dell’evoluzione, che di fatto renderebbe inutile l’esistenza di Dio. Peraltro, ho sempre avuto qualche problema a capire perché, se due specie di uccelli evolvono in maniera diversa, a seconda se siano su un’isola o su un’altra, questo dovrebbe negare la possibilità di un Dio: non potrebbe esserci un’entità divina che fa sì che ciò si verifichi in questi termini nel mondo che ha creato? Comunque, prima di iniziare a lavorare sullo spettacolo, per me Darwin era, più di ogni altra cosa, uno scienziato che basava i propri ragionamenti su prove oggettive. Poi, come sempre avviene con tutto quello che si è studiato a scuola, si pensa che queste figure storiche non corrispondano a persone reali. Quando finalmente ho iniziato a concentrarmi sull’essere umano Charles Darwin, ho capito che si trattava di uno come tutti, con lo stesso bagaglio di ansie, problemi, angosce di ciascuno di noi.

Nel nostro spettacolo, Darwin, per me, è lo scienziato al quale facciamo ricorso per riflettere su una crisi attuale che sta affliggendo il nostro mondo. È la base, le fondamenta – se pensiamo allo spettacolo come a un edificio – della storia raccontata in scena da Marco Paolini, che è, comunque, una vicenda di fantasia, ambientata ai nostri giorni.

Come hai lavorato con Marco Paolini alla realizzazione dello spettacolo?

È fluito tutto in modo molto naturale. Claudio Longhi, un giorno, mi ha chiesto se conoscessi Marco Paolini, che, nel Regno Unito dove vivo, non è popolare come in Italia. Mi ha accennato al fatto che questo artista italiano aveva in progetto di dedicare uno spettacolo a Charles Darwin e ci ha fatto incontrare in un ristorante, a Cesena, dove ci siamo seduti ai due estremi del tavolo, studiandoci a vicenda. Questo primo approccio è stato seguito da tre giorni sulle montagne di Arte Sella, in Trentino. Quando sono andato lassù, per stare con Marco, sua moglie e i loro collaboratori, pensavo che ognuno di noi si sarebbe arroccato sul proprio modo di far teatro e la cosa sarebbe finita lì. Invece, dopo quel breve periodo, ho capito che Marco era una persona molto interessata a nuove proposte su un altro modo in cui la storia di Darwin avrebbe potuto essere raccontata. In quella prima fase, il testo era una sorta di biopic, una versione troppo “storica” della vita dello scienziato: volevo individuare una strada per trattare la vicenda in un modo più moderno e abbiamo iniziato a discuterne insieme. Lasciando da parte la sua lunga storia artistica e un metodo di lavoro rodato negli anni, Marco ha dato prova di grande apertura e disponibilità. Ma ancora non eravamo entrati nel vivo del lavoro in sala prove… Ad ogni modo, Claudio deve aver visto qualcosa in noi, perché, anche in questa fase, abbiamo lavorato molto bene insieme: penso che siamo due narratori che amano la teatralità, l’artificio del teatro. A me non piace il naturalismo, perché penso sia un linguaggio destinato alla televisione o al cinema; in teatro, all’opposto, bisogna relazionarsi con un gruppo di persone fisicamente presente, che vive un’esperienza unica. Questo presupposto è fondamentale nel lavoro di Marco, come lo è nel mio. Quando vidi il suo spettacolo Boomers [è stato in scena anche al Teatro Strehler nella stagione 2023/24, ndr], ho notato quanto la sua cifra stilistica differisse dalla mia, ma non mi sono spaventato: dovevamo solo capire in che modo trasportare l’arte di raccontare di Marco – che comunque ha in mano i fili della vicenda, che nasce dal suo racconto, compie un percorso e torna a lui – in un mondo forse un poco più “onirico” di quello in cui lui si muove abitualmente, un universo che si schiudesse alle sue spalle per fornire immagini e suggestioni, per richiudersi poi al momento opportuno.

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Estratti dal programma di sala

Darwin, Nevada
un progetto di Marco Paolini,
regia Matthew Lenton
da un’idea di Niles Eldredge, James Moore, Francesco Niccolini,
Marco Paolini, Telmo Pievani, Michela Signori
drammaturgia Marco Paolini
con la collaborazione di Francesco Niccolini e Telmo Pievani,
dramaturg Teresa Vila
scene e costumi Emma Bailey
luci Kai Fischer
sound design Mark Melville
consulenza scientifica Niles Eldredge, James Moore
assistente alla regia Virginia Landi
con Marco Paolini e con Clara Bortolotti, Cecilia Fabris, Stefano Moretti, Stella Piccioni
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Stabile di Bolzano,
Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Vanishing Point, Jolefilm
in collaborazione con La Fabbrica del Mondo

 



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