No al referendum sull’autonomia | il manifesto

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Saranno cinque i referendum sui quali i cittadini italiani saranno chiamati ad esprimersi nella prossima primavera: quattro relativi alla normativa sul lavoro promossi dalla Cgil, e uno sulla cittadinanza promosso da +Europa e alcune associazioni. Mancherà invece all’appello il quesito politicamente più rilevante, quello sull’autonomia differenziata. La Corte costituzionale ha infatti dichiarato ieri ammissibili i primi cinque, escludendo invece il sesto. Quest’ultimo aveva visto il concorso non solo di Cgil e Uil e diverse associazioni nella raccolta delle firme, ma anche di quasi tutti i partiti di opposizione, da Italia viva ad Avs, eccetto Azione.

IN ATTESA DELLA SENTENZA che verrà pubblicata nei prossimi giorni, ieri un comunicato della Consulta ha dato alcune indicazioni di massima. La Corte, si legge nel comunicato, «ha ritenuto inammissibile il quesito referendario sulla legge n. 86 del 2024, come risultante dalla sua sentenza n. 192 del 2024». Come si ricorderà, la sentenza del 14 novembre scorso ha dichiarato «illegittime» gran parte delle norme della legge Calderoli, mentre di altre ha dato un’interpretazione orientata in coerenza con le altre norme della Costituzione. Insomma ciò che resta di quella legge – ben poco – è qualcosa di residuale e di ben diverso dal testo su cui sono state raccolte le oltre 3 milioni di firme.

PER QUESTO MOTIVO «la Corte ha rilevato che l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari», uno dei requisiti per ammettere un referendum. «Ciò pregiudica – spiega ancora il comunicato – la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore». In sostanza, «il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata, come tale, e in definitiva sull’art. 116, terzo comma, della Costituzione; il che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale».

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UNA DECISIONE, quella della Corte, preannunciata da alcuni giuristi e costituzionalisti, i quali hanno osservato – come Stefano Ceccanti ieri sul Quotidiano nazionale – che la decadenza del referendum apre le porte a un intervento del Parlamento meno conflittuale. Spetterà quindi alla maggioranza e in particolare alla Lega – alle prese con un imminente congresso piuttosto complicato per Matteo Salvini – decidere se mantenere l’approccio muscolare sull’autonomia, incentrato sul patto tra i tre partiti sulle rispettive riforme (autonomia alla Lega, premierato a Fdi, giustizia a Fi), o aprire una fase costituente. Il che interpellerebbe anche le opposizioni sulla postura da assumere.

LA CADUTA del referendum sull’autonomia rende più complicato il raggiungimento del quorum per gli altri cinque che invece sono stati ammessi. Quello sulla cittadinanza dimezza gli anni di residenza in Italia necessari agli immigrati per richiederla: da dieci a cinque. Per quanto riguarda i quattro quesiti sul lavoro promossi dalla Cgil, ma su cui anche il Pd si è impegnato nella raccolta di firme durante le feste dell’Unità dell’estate, il primo chiede l’abrogazione totale di uno dei decreti che costituivano il Jobs act, vale a dire il decreto legislativo 23 del 2015, sui licenziamenti, già caducata in diverse sue parti da sentenze della Consulta. L’abrogazione riporterebbe non al vecchio articolo 18, bensì alla norma precedente al Jobs act, la legge Fornero (la n. 92 del 2012) votata da tutti i partiti che sostenevano il governo Monti, Pd in testa, che introdusse il licenziamento individuale. Il secondo quesito abroga un altro decreto del Jobs act che «liberalizzava» i contratti a tempo determinato. Un terzo referendum abroga una legge del 1966 che imponeva per le piccole aziende un tetto massimo all’indennizzo per i licenziamenti illegittimi. Il quarto – importantissimo abroga la norma che impedisce, in caso di infortunio negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante.

IERI LA CORTE COSTITUZIONALE è stata costretta a deliberare su un dossier politicamente rilevanti nel numero legale minimo, con soli 11 giudici, visto che il Parlamento non ha eletto i quattro membri necessari per completare il plenum. Giovedì prossimo il Parlamento in seduta comune dovrebbe tornare a riunirsi per adempiere il proprio dovere, maggioranza e Fi permettendo, alle prese con le proprie divisioni interne. Nel frattempo, la Corte dovrà procedere con un altro proprio compito a ranghi ridotti: oggi infatti scade il termine di 30 giorni che la stessa Consulta ha per eleggere il proprio presidente, dopo che il precedente ha concluso il mandato.

DAL 21 DICEMBRE il presidente facente funzioni è Giovanni amoroso, che potrebbe essere eletto oggi presidente a tutti gli effetti. Oggi ci sarà una conferenza stampa del neo eletto, non ci si dovrà meravigliare se il nuovo presidente esprimerà rammarico per la mancata elezioni dei giudici mancanti. L’assenza del plenum per l’elezione del presidente non gli toglie legittimità e autorevolezza, ma si può immaginare che sia per lui un motivo di rammarico.



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