Le norme sul traffico di migranti alla prova della Corte di giustizia dell’Unione europea

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“È tempo di aggredire l’intera disciplina”. Quando l’avvocata Francesca Cancellaro del Foro di Bologna ha incontrato per la prima volta O.B., donna di origine congolese che rischiava fino a 15 anni di carcere e 30mila euro di sanzione pecuniaria per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” per aver fatto viaggiare con sé la figlia di otto anni e la nipote di 13, non ha avuto dubbi. Era necessario andare alla fonte. “Sia la normativa italiana sia quella europea non richiedono il fine di lucro come elemento costitutivo del reato e non escludono la punibilità in caso di azioni compiute per scopi altruistici e umanitari – spiega Cancellaro-. Così ho chiesto l’intervento della Corte di giustizia dell’Unione europea”. La sentenza è attesa nei primi mesi del 2025 ed è un tassello fondamentale: in gioco non c’è solo la vita di migliaia di persone potenzialmente condannate ingiustamente ma anche il nuovo assetto della normativa europea attualmente in fase di discussione a Bruxelles.

Andiamo con ordine. È il 27 agosto 2019 quando O. B. arriva con un volo proveniente da Casablanca all’aeroporto di Bologna, con lei ci sono la figlia di otto anni e la nipote di 13. La donna sta scappando dalla Repubblica Democratica del Congo per sfuggire alle minacce di morte rivolte a lei e alla sua famiglia dall’ex compagno. Ma quando si presenta ai controlli di frontiera, presentando i tre passaporti falsi (senegalesi) che hanno permesso loro di viaggiare, viene arrestata e la figlia e la nipote vengono collocate in una struttura di accoglienza dedicata.

L’accusa beffarda è di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina delle due bambine, con l’aggravante della falsificazione dei documenti e dell’utilizzo di un servizio di trasporto internazionale. O. B. rischia inizialmente fino a 15 anni di carcere. “Una situazione paradossale sotto diversi aspetti -sottolinea Cancellaro- ma soprattutto per il fatto che svela l’irragionevolezza della normativa sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che non prevede che il fine di lucro o qualsiasi tipo di sfruttamento siano elementi costitutivi del reato”. L’avvocata decide prima di sollevare la questione di costituzionalità sulle aggravanti del reato, con la Consulta che le dà ragione e riduce il “rischio” per O. B. a cinque anni di carcere, per poi richiedere al Tribunale di Bologna di sollevare una questione di legittimità alla Corte di giustizia dell’Unione europea sulla compatibilità delle norme sul traffico di migranti con la Carta dei diritti fondamentali. “Il mio ricorso si basa sul fatto che il cosiddetto ‘pacchetto facilitatori’ adottato nel 2002 dall’Ue è problematico perché criminalizza qualsiasi azione connessa all’ingresso irregolare sul territorio di uno Stato e questo in contrasto con il diritto alla vita, all’asilo, all’unità familiare”.

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Il ricorso è storico: nessuno in vent’anni aveva mai richiesto un intervento dei giudici di Lussemburgo. Quello che era già successo, invece, erano le accese critiche all’assenza all’interno della normativa europea della cosiddetta clausola umanitaria. “Il problema è che la Direttiva impone agli Stati membri di criminalizzare qualunque forma di agevolazione dell’ingresso o del transito sul territorio -spiega Stefano Zirulia, professore associato di Diritto penale all’Università statale di Milano e che per primo ha teorizzato l’incompatibilità della disciplina con il principio di proporzionalità sancito dalla Carta dei diritti fondamentali Ue-. Questo è un paradosso: se un richiedente asilo può raggiungere un Paese sicuro quasi esclusivamente attraverso vie irregolari, perché non esiste un visto per richiedenti asilo, molto frequentemente avrà bisogno di agevolatori che gli permettano di viaggiare. Chi lo trasporta, chi gli fornisce il passaporto, chi lo ospita: questo è strutturalmente inevitabile. Mettere sullo stesso piano le organizzazioni criminali e le persone che aiutano i richiedenti asilo, siano essi attivisti e attiviste piuttosto che familiari o connazionali è incompatibile con la Carta fondamentale dell’Ue”.

Partendo da un caso concreto, Zirulia fa notare come in alcuni casi il mancato aiuto a una persona richiedente asilo che sta attraversando un confine potrebbe tradursi in una violazione dei suoi diritti fondamentali: “Quello alla vita e all’integrità fisica piuttosto che quello alla salute -riprende il professore-. Pensiamo a quando al confine tra Polonia e Bielorussia gli attivisti sono costretti a lasciare le persone nel bosco e raggiungerle il giorno successivo per paura di essere arrestati. Sono costretti a un’omissione di soccorso, per il rischio di incriminazione. Tecnicamente si chiama ‘chilling effect’, ossia l’effetto congelamento derivante dal timore delle conseguenze penali delle proprie azioni. Questo è il peccato originale della normativa europea”.

Ed è proprio questo il punto su cui si pronuncerà la Corte di giustizia dell’Unione europea probabilmente a febbraio 2025. In gioco c’è l’intero assetto della normativa europea sul tema del favoreggiamento, anche se ad inizio novembre il parere dell’avvocato generale Richard de la Tour ha in qualche modo ridimensionato questo aspetto. “La conclusione a cui arriva è che la direttiva è legittima -spiega l’avvocata Cancellaro- ma riconosce che è necessario che ogni Stato membro tratti diversamente chi ha scopo di lucro e chi invece opera con uno scopo umanitario, che non va criminalizzato”. La palla passa così ai giudici che sostanzialmente potrebbero seguire tre vie: ritenere conforme la direttiva, annullarla del tutto oppure interpretarla restrittivamente alla luce della Carta dei diritti fondamentali. “Si potrebbe avere un effetto su tutti i procedimenti, quelli in corso ma anche quelli già conclusi”, spiega l’avvocata. In altri termini: un capitano che è stato condannato solo per aver guidato la nave che ha portato le persone sul territorio italiano senza alcuno scopo di guadagno economico, potrebbe vedersi ridurre la pena o addirittura cancellare la condanna.

Un terremoto sotto almeno due aspetti. Da un lato inevitabilmente per chi subisce in prima persona gli effetti di quella normativa, dall’altro a livello politico considerando la centralità del contrasto ai “trafficanti” nell’agenda sia della Commissione europea sia degli Stati membri, come l’Italia. E non è un caso che in fretta e furia il 13 dicembre il Consiglio europeo ha concordato la sua posizione sulla nuova normativa europea che sostituirà il pacchetto del 2002, oggi in esame davanti alla Corte di giustizia. “La proposta stessa è stata presentata con una fretta quantomeno insolita -spiega Silvia Carta, advocacy officer della Piattaforma per la cooperazione internazionale sui migranti senza documenti (PICUM). Si conoscevano le problematiche legate alla normativa in vigore da anni ma, nonostante non fosse in agenda, la Commissione europea ha proposto un testo nel novembre 2023, poi votato dal Consiglio il 13 dicembre scorso. Tra l’altro, senza il cosiddetto ‘impact assessment’ che analizza l’impatto della normativa per rendere più efficaci possibili gli interventi di riforma”.

Il voto di venerdì 13 dicembre ha colto di sorpresa anche gli addetti ai lavori ed è probabile che il “caso Kinsa” (così è stata denominata la causa pendente dinanzi alla Corte di giustizia) abbia contribuito ad accelerare i tempi. “Secondo il piano di lavoro del Parlamento europeo il testo potrebbe essere votato in plenaria entro l’inizio dell’estate -riprende Carta- e poi da lì cominceranno i triloghi per arrivare al testo finale quindi possiamo dire con ragionevole certezza che arriverà prima la sentenza della Corte”. Quel che è certo è che, ad oggi, nel testo votato dal Consiglio la clausola umanitaria continua a essere presente esclusivamente nei “considerando” non nel testo della Direttiva. “Di fatto è come se non ci fosse -sottolinea Zirulia- perché lascia libertà agli Stati di decidere se introdurla o meno: come visto, in questi vent’anni, solamente Spagna, Belgio e Finlandia hanno previsto esimenti umanitarie sufficientemente ampie da ricomprendere l’agevolazione dell’ingresso irregolare”. Con risultati tutt’altro che convincenti. “Anche se è presente negli ordinamenti -riprende Carta- poi difficilmente viene applicata durante i procedimenti”.

Intanto oltre mille “capitani”, come raccontato su Altreconomia, sono reclusi nelle carceri italiane. E la maggior parte delle denunce riguardano persone che hanno agito senza scopo di lucro: secondo i dati del ministero dell’Interno tra il 2004 e il 2021 più di 37mila persone sono state denunciate per aver favorito l’ingresso illegale di stranieri in Italia ma solo nel 17% dei casi è stata contestata l’aggravante del profitto. Per l’Arci Porco Rosso, associazione attiva a Palermo che garantisce supporto legale a centinaia di persone criminalizzate. “Speriamo che i giudici della Corte -sottolinea l’avvocata Maria Giulia Fava- avranno il coraggio di andare oltre il parere dell’avvocatura generale e stabilire limiti più stringenti al legislatore europeo e nazionale nel criminalizzare con pene esorbitanti uno spettro ampissimo di storie. Per porre fine alla sofferenza di migliaia di persone ingiustamente incarcerate in tutta Europa”.

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