Muse di Trento, il neo direttore: «Tra i 200 progetti Food sound, il destino dei ghiacciai e biodiversità in Tanzania»

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di
Roberto Brumat

Il neodirettore del Museo delle Scienze e il programma dei prossimi mesi: focus sulla rilettura dell’Antropocene e sguardo internazionale sui fenomeni

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Il Muse di Trento non è un’istituzione museale, piuttosto uno strumento scientifico-culturale che punta a comprendere il mondo che ci circonda trovando nuove soluzioni per migliorarlo. Così si può riassumere la visione della nuova direzione affidata da novembre a Massimo Bernardi, per 16 anni attivo all’interno del museo e negli ultimi tempi responsabile dell’Ufficio Ricerca.

Come si tradurrà questo concetto nel 2025?
«I progetti sono oltre 200, ma possiamo evidenziarne i tre più emblematici. “Food Sound” (dal 22 febbraio) invita il visitatore a usare un senso insolito come l’udito per avvicinarsi al cibo usando le cuffie; per l’Anno Internazionale della conservazione dei ghiacciai, dal 21 marzo zoologi e glaciologi affronteranno il tema che indica come catastrofico il nostro tempo; il terzo progetto partito proprio ieri nel centro di monitoraggio ecologico e di educazione ambientale che il Muse ha in Tanzania, riguarda ricerca naturalistica e cooperazione internazionale per salvaguardare le biodiversità che sui monti Udzungwa sono tra le più importanti del mondo».




















































Essendo più un centro di ricerca che un classico museo di scienze naturali, il Muse conta una quarantina di ricercatori. Da chi è composto il comitato scientifico?
«A fine 2024 a parte la riconferma di Luigi Boltani professore emerito di Zoologia alla Sapienza di Roma, esperto di conservazione biologica e consulente della Provincia per la fauna locale, gli altri quattro membri sono nuovi: Anna Giorgi, ordinario di Botanica ambientale e applicata all’Università di Milano e responsabile dell’Università della montagna di Edolo, Paola Mattei ordinario di Scienza politica dell’Università di Milano, Andrea Cancellato presidente di Federculture e direttore generale di Adi Design Museum di Milano e Maurizio Melis giornalista scientifico».

L’anno da poco concluso ha portato grandi cambiamenti amministrativi, ma non solo.
«Abbiamo raggiunto il numero record di 550.000 visitatori di cui 200.000 studenti. È stato premiante implementare il nostro ruolo di ente di ricerca, che intendiamo far crescere in futuro dando un contributo significativo alla conoscenza (anche pedagogica) dei fenomeni ambientali in collaborazione con altri nuclei di lavoro. Grazie alle nostre sedi staccate (da Ledro a Viotte, dal Bondone ad Arco fino alla Tanzania) siamo un museo esteso che ambisce a valorizzare i territori facendo diventare ogni sede un riferimento indipendente rispetto allo stesso Muse».

Quali i punti cardine del vostro impegno futuro?
«Oltre a innovazione e ricerca orientate in primis sul contesto montano e al valore di museo esteso che informa e insieme forma il territorio, puntiamo sulla rilettura dell’Antropocene, sullo sguardo a un orizzonte internazionale e sul valore stesso di museo come esperienza sociale. Rispetto all’Antropocene ci impegniamo a non separare natura e cultura, considerandole due facce della stessa medaglia: in proposito per quest’anno e come fil rouge per quelli a venire, abbiamo in programma di riallestire le nostre esposizioni permanenti ragionando di natura che contiene le dinamiche sociali che stiamo vivendo. I nostri riferimenti sono in prima battuta i contesti provinciale e nazionale, tuttavia intendiamo collaborare sempre di più con soggetti internazionali, perché è fondamentale lo scambio di informazioni e conoscenze: possiamo affrontare il tema dello scioglimento dei nostri ghiacciai trentini senza sentire le esperienze e senza avere i dati di ricercatori di altre parti del mondo? Dobbiamo spalancare una finestra sul pianeta. Infine l’aspetto sociale. Siamo un servizio pubblico e come tale è importante confrontarci anche con istanze critiche rispetto al metodo scientifico: il che non significa condividerle».

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