Negli ultimi giorni, tra i principali temi del dibattito pubblico italiano c’è stata la morte di Ramy Elgaml, un giovane del Corvetto, quartiere della periferia di Milano. L’occasione è diventata un’ottima occasione per la destra di fomentare un pericoloso clima di odio e repressione, aizzando giornali e anche semplici cittadini in una vera e propria opera di linciaggio mediatico.
Ma andiamo con ordine, partendo dai fatti, ossia con lo stato delle indagini. Perché, per quanto ne dicano in queste ore vari politici e opinionisti che chiedono le “scuse per i carabinieri“, le informazioni trapelate dalla Procura di Milano chiariscono che l’inseguimento di Ramy e Fares Bouzidi si è svolto senza violazioni solo perché non esistono protocolli chiari in merito.
Il riferimento è all’articolo 55 del codice penale, che recita: “la polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale“.
Tutto qui, un’interpretazione di un testo che non assolve in nulla i militari. E infatti, sono in tre a essere sotto indagine, uno per omicidio stradale (come Fares, alla guida dello scooter, per concorso nello stesso reato) e due per “frode processuale, depistaggio e favoreggiamento” con l’accusa di aver costretto cancellare i video dello schianto dal cellulare di Omar, un autista di Uber presente al momento dell’incidente. Distruggere alcune prove non è esattamente un “difendere la legge”, specie per dei carabinieri… E sicuramente non è indice di “piena innocenza”.
Insomma, quello che per ora sappiamo, in attesa delle perizie sull’accaduto e sul telefono dell’autista in arrivo alla fine del mese, è che in almeno una delle ricostruzioni della polizia locale si parla nel dettaglio dell’impatto tra la gazzella dei militari e lo scooter, che ha fatto poi cadere i due ragazzi, così come appare dalle immagini rese pubbliche.
Se venissero ritrovate tracce del video cancellato nella copia forense del cellulare di Omar, come ha spiegato Debora Piazza, la legale di Fares, allora il reato di omicidio stradale per il carabiniere potrebbe essere trasformato in omicidio volontario con dolo eventuale. Ovvero un comportamento talmente aggressivo (nell’inseguimento) da mettere in conto che l’effetto poteva essere la morte di un’altra persona.
“Si può basare anche su quanto accaduto prima del fatto di reato, con i dialoghi registrati, e su ciò che è avvenuto dopo, con le minacce che sarebbero state fatte nei confronti del testimone oculare“, ha specificato l’avvocato Piazza. In sintesi, anche non recuperando il video, visto che è stato fatto cancellare, ciò sarebbe già una possibile prova di un omicidio commesso volontariamente (solo chi sa di essere colpevole, o i suoi complici, ha un interesse personale a distruggere le prove).
Chiudiamo qui l’introduzione, perché oltre a chiarire come siamo ancora lontani da una possibile verità giuridica sulla morte di Ramy, pensiamo sia evidente come, anche questa, deriverà da una serie di variabili che bisognerà poi vedere come verranno interpretate in sede di indagini e di successivo dibattimento in tribunale. Ma non necessariamente tutto ciò restituirà l’accaduto nella sua interezza.
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Se guardiamo invece alla reazione politica avuta dalle forze di maggioranza rispetto alla vicenda, così come dai giornali di destra, va sottolineato la doppia direttrice delle affermazioni fatte. Da una parte, c’è stata la difesa a priori dei militari, e delle forze dell’ordine in senso lato, dall’altra il linciaggio mediatico di chiunque abbia provato a criticare l’operato dei carabinieri.
Innanzitutto, è stato completamente cancellato il nodo della provenienza di Ramy. Non parliamo solo della sua origine egiziana, sulla quale magari anche le finte opposizioni hanno rimandato al razzismo dei post-fascisti, ma dell’appartenenza a quella schiera di dimenticati dalle istituzioni che costituiscono il popolo delle periferie metropolitane.
La questione sociale insita nel caso è ovviamente tenuta in disparte da chiunque, altrimenti si dovrebbe criticare anche il “modello Sala”. Al contrario, il sindaco di Milano e vari altri esponenti del centrosinistra sono stati strumentalmente attaccati nel solito gioco delle parti del bipolarismo che caratterizza la vita politica del paese.
Ma soprattutto, è stata posta sotto un attacco organizzato la portavoce nazionale di Potere al Popolo, Marta Collot. Ospite al programma di Rete 4, Dritto e Rovescio, ha avuto un duro confronto con gli ospiti della trasmissione (Belpietro, Cruciani e così via), ed è stata poi al centro di post da parte di Fratelli d’Italia e Salvini.
Sin da subito, i suoi profili social sono stati bersagliati da centinaia di commenti, in un’operazione visibilmente architettata da provocatori di professione in gruppi online della destra. Si va dalla difesa dei carabinieri alle promesse di denuncia, fino all’augurio di trovarsi in situazione di pericolo senza però ricevere la tutela delle forze dell’ordine.
Ma soprattutto, tutti i suoi post, vecchi e nuovi, sono stati investiti da un pullulare di insulti razzisti a Ramy e sessisti a Collot stessa. Il tentativo di aizzare il proprio elettorato ha dato via libera alle minacce più schifose, senza preoccuparsi di come figure sociali abbrutite e ingozzate di propaganda di guerra e di discriminazione potessero riversare odio e minacce sulla portavoce di Potere al Popolo.
Per mesi e mesi chi è stato nelle piazze per difendere i lavoratori e solidarizzare con la resistenza palestinese è stato accusato di “diffondere odio” e di esprimere “visioni violente”. In questi giorni abbiamo visto invece come l’odio – quello vero, decerebrato e “di branco” – è invece fomentato contro le esperienze di alternativa.
E questo apre l’ultimo capitolo della vicenda che qui discutiamo. Il linciaggio mediatico della giovane militante non è stato opera solo dei due principali azionisti della maggioranza, ma anche di alcuni giornali, come Libero, che ieri ha ribadito la necessità di “chiedere scusa ai carabinieri“. Dalle colonne dello stesso giornale è stata data voce anche alla deplorazione dell’USMIA.
Il segretario dell’Unione Sindacale Militari Interforze Associati ha criticato la “superficiale narrazione mediatica di alcuni delatori, i quali criminalizzano le forze dell’ordine definendole persino assassine – come ha dichiarato Marta Collot con riferimento al caso Ramy durante una trasmissione televisiva“.
Ha poi commentato: “i crescenti episodi di aggressioni in danno delle forze dell’ordine, gli attentati dinamitardi alle caserme, le violenze di piazza e le devastazioni da parte di vere e proprie guerriglie urbane, impongono un pugno duro e interventi normativi non più differibili per garantire protezione a chi opera quotidianamente in difesa della legalità e della sicurezza dei cittadini“.
Un’altra frase ha poi il sapore del rimando a una svolta storica: “il tempo di subire è finito, è giunto il momento di agire!” E non potrebbe essere più d’accordo il ministro Piantedosi, che avendo ricordato che all’alt ci si ferma, altrimenti può succedere di andare incontro alla morte (come è avvenuto decine di volte ai tempi della criminale “legge Reale”), ne ha approfittato anche per chiedere che si acceleri sul ddl 1660.
“C’è un network tra gruppi antagonisti per fare guerriglia contro le forze dell’ordine, è necessario approvare subito il ddl Sicurezza“, ha detto. E intanto Nordio in Senato ha denunciato l’automatismo dell’iscrizione degli agenti nel registro degli indagati, nei casi in cui venga commesso un reato durante il servizio.
Non proprio uno “scudo penale”, ma di certo una larga garanzia di impunità – e di incognito – per la forza pubblica, un modo di tenersela vicina e obbediente proprio mentre si decide di stringere il cappio della repressione per prevenire qualsiasi dissenso. La pesante intimidazione subita a Brescia anche dalla attivista di Extinction Rebellion, costretta a spogliarsi e a fare piegamenti, ne è un altro esempio.
La strumentalizzazione della morte di Ramy, così come il linciaggio di Marta Collot e le perquisizioni da carcere speciale per chi protesta pacificamente con un cartello in mano, provocano innanzitutto indignazione e disgusto, ma devono suscitare soprattutto preoccupazione politica, perché è evidente come in questo paese dello “stato di diritto” non rimanga più quasi nulla.
E di come le classi dirigenti stiano preparando il terreno all’unico aspetto dello “Stato” che vogliono rimanga in Italia: quello di polizia.
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