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Irene Mingozzi, VC di Italian Founders Fund, conosce l’ecosistema americano dell’innovazione perché ha lavorato dieci anni in Silicon Valley. «Sposta di più una scelta di Meta che una legge del Congresso». La nostra intervista nel giorno del giuramento del tycoon al suo secondo mandato da presidente nello speciale “America chiama mondo”
«Ci sono tantissimi italiani che fanno impresa e startup negli USA. Molti fuori dai radar. Per una persona italiana high-skilled potrebbero addirittura esserci meno ostacoli con la nuova presidenza Trump rispetto alla prima, visto il supporto di Musk all’immigrazione qualificata. Da tanti anni si parla poi di startup VISA per supportare gli imprenditori. Chissà che non sia la volta buona». Irene Mingozzi, venture capitalist per Italian Founders Fund, veicolo con in gestione 50 milioni di euro e finora nove investimenti su aziende innovative, ha commentato per noi il presente, ma soprattutto il futuro dell’innovazione negli USA per chi arriva dall’Italia. Oggi, lunedì 20 novembre, è infatti il giorno in cui Donald Trump si insedierà come nuovo presidente, dando il via a una serie di cambiamenti. Tante le incognite, ma anche le opportunità di sviluppo sul fronte AI. Buona parte della Silicon Valley ha scelto di puntare sul tycoon per una maggiore liberalizzazione.
Hai lavorato per dieci anni in Silicon Valley. Anzitutto, cosa ci puoi dire della presenza di founder italiani Oltreoceano?
Sono davvero tanti, molti anche fuori dai radar. In certi casi non hanno neppure ricercato un contatto italiano, ma si sono immersi nel contesto USA. Lavorano nelle Big Tech, oppure trovano un co-founder da tutto il mondo e lanciano la propria venture. È rilevante anche il cluster dei repeat founder, persone che hanno fatto un’azienda dopo l’altra. Con il nostro fondo ne incontriamo tanti. Abbiamo appena investito sul progetto di un italiano a San Francisco. Stiamo lavorando a uno scout program internazionale per entrare nel tessuto delle relazioni.
Dato che conosci quell’ecosistema in particolare, cosa puoi dirci di come si è mossa la Silicon Valley negli ultimi tempi, soprattutto riguardo al sostegno nei confronti di Trump.
Per molti anni la Silicon Valley è stata famosa per essere rimasta quasi come una bolla, lontana dalla politica e da certe dinamiche. È stata molto indipendente e separata. Del resto il potere privato negli USA è fortissimo. Grandi imprenditori muovono tanti dipendenti e tanti consumatori ne sono direttamente influenzati. In altre parole, sposta molto di più una scelta di Meta che una nuova legge negli Stati Uniti. È politica a tutti gli effetti.
Poi però qualcosa è cambiato: gli endorsement a Trump sono aumentati, a cominciare da quello di Elon Musk.
Se si pensa al primo mandato di Trump spesso le Big Tech si sono messe contro, anche perché il mercato andava a gonfie vele. Quando non è stato rieletto i contrasti con il tycoon sono aumentati. Oggi, invece, in questo momento di instabilità e di grande potere di Musk e di Trump, il vento è cambiato. Tanti in realtà si stanno adeguando al nuovo ordine delle cose. Fino a quando il mercato andava bene i grandi imprenditori si sono comunque tenuti lontani da certe logiche. Lato AI prevedo poi un trend: la deregolamentazione. È uno dei motivi per cui Musk è salito a bordo.
Gli Stati Uniti di Trump continueranno dal tuo punto di vista a rappresentare un’opportunità per founder e Ceo italiani?
Partirei sempre dalla questione del visto, la più complessa. È la prima barriera all’ingresso. Nella fase pre-seed e seed di un’azienda, che è già tosta, il tema del visto è un ulteriore problema. È stata una delle cose più difficili che ho dovuto affrontare quando vivevo là. Nella prima presidenza Trump è stato molto complesso, il mio visto era stato ritardato proprio perché il presidente aveva bloccato un sacco di procedure. Ora c’è stato un cambiamento imprevisto: molta della sua campagna degli ultimi anni è stata contro l’immigrazione, ma le Big Tech si basano sull’immigrazione, ovviamente quella qualificata. Musk dice che il talento è distribuito in tutto il mondo. Molti tra gli imprenditori e gli investitori che stanno supportando Trump si sono dunque schierati a favore di un’apertura dei visti per persone high-skilled. La base repubblicana non è d’accordo, ma Trump pare si sia schierato pro Musk su questo aspetto. Può essere che faccia entrare più talenti e dunque per una persona italiana potrebbero esserci meno ostacoli rispetto a un tempo.
Parlando di imprenditori italiani, rappresentano proprio il target del vostro fondo.
Italian Founders Fund è stato lanciato nel 2024, io mi sono unita pochi mesi dopo. L’obiettivo è favorire l’investimento da parte di founder italiani, che hanno fatto exit e avuto storie di successo, nella nuova generazione di founder. Come LP contiamo più di 120 fondatori italiani nel mondo. Abbiamo chiuso nove investimenti e stiamo lavorando per altri. Siamo attivi nella fase pre-seed e seed con ticket da un milione di euro.
Cosa suggeriresti a un italiano che sogna di andare negli USA per fare startup?
Consiglio di non idealizzare la cosa: meglio andarci prima, investirci un po’ di tempo e soldi per vedere se è il posto giusto. C’è tanto contesto che non passa attraverso i media. Bisogna capire cosa significa lavorare lì, magari in una Big Tech. Serve conoscere le persone del posto. Io non avevo il sogno americano ed è stato molto diverso rispetto a quello che mi aspettavo. A livello operativo vale il network, molto più che in Italia.
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