Lunedi 20 gennaio Donald Trump si insedia alla Casa Bianca. È felicissimo. Dichiara: “Nel 2016 avevo tutti contro, adesso vogliono stare tutti con me”. Aria nuova, o vecchissima, e pure Trump è rimasto sorpreso della velocità con cui i grandi protagonisti dell’economia digitale – quell’oligarchia che domina Wall Street, orienta i consumi, influenza la politica e moltiplica i patrimoni – hanno riconosciuto la sua vittoria e per festeggiare hanno staccato fior di assegni per finanziare la cerimonia dell’insediamento alla Casa Bianca. Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Sam Altman hanno fatto visita a Trump nella sua villa in Florida, pagando un milione di dollari ciascuno, come aveva già fatto il leader incontrastato della destra tech Elon Musk che pare sia riuscito a strappare un contratto da un miliardo e mezzo di dollari al governo Meloni per la sua Space X.
Si dirà che non c’è da sorprendersi, così va il mondo e tutti pensano ai propri interessi. Se cambia il presidente degli Stati Uniti si può certo cambiare opinione e succede ovunque che gli interessi economici e finanziari si riposizionino davanti alle novità politiche, soprattutto quando sono clamorose e portatrici di possibili sorprese. Però le notizie americane, che si riflettono anche in Europa e in casa nostra, non sono banali, ci parlano di quella che Aldo Grasso sul Corriere della Sera definisce “quell’ingerenza disinformata” che inquina le nostre democrazie.
La svolta reazionaria, tech e informazione
Una volta c’era la Silicon Valley democratica, progressista, tecnologica, efficiente e naturalmente sempre miliardaria. Nasceva dalla cultura libertaria della West Coast, si nutriva della filosofia e delle provocazioni di Haight-Ashbury, uno spirito libero e creativo, alimentato da università prestigiose e capitali coraggiosi, che formava i campioni della New Economy, i protagonisti di un cambiamento epocale dello sviluppo economico, capaci di cambiare il paradigma della crescita e della gestione delle imprese. Bill Gates, Jeff Bezos, Steve Jobs, Larry Ellison, Mark Zuckerberg e compagnia vengono tutti da lì, da quell’onda sociale e culturale. I tempi cambiano e anche gli eroi di un tempo invecchiano e tengono famiglia, a volte più famiglie dopo divorzi assai costosi.
Così accadono fatti che, pochi anni fa, sarebbero stati impensabili. L’influenza della politica, in una commistione spesso oscura con il mondo degli affari, appare sempre più evidente, forte, invasiva anche negli Stati Uniti dove la libertà di stampa, delle opinioni, della ricerca è sempre stata difesa a oltranza da quasi tutti gli interessi e le espressioni della società. L’influenza c’è sempre stata, ma la marcia trionfale di interessi che possono limitare il diritto di espressione e di formazione dell’opinione pubblica è un’altra cosa.
Censurare vignette, negare la verità, tagliare i diritti
Anche i piccoli episodi possono essere segnali importanti. Ora accade che, a pochi giorni dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il Washington Post, di cui è editore Jeff Bezos (Amazon), censuri una vignetta di Ann Telnaes, prestigiosa vignettista e vincitrice di un premio Pulitzer. Nella vignetta destinata alla sezione Opinioni del quotidiano e non pubblicata compare lo stesso Bezos, in ginocchio davanti Trump assieme ad altri big della Silicon Valley come Zuckerberg, fondatore di Meta, Altman, capo di OpenAi, oltre a Patrick Soon-Shiong, proprietario e editore del Los Angeles Times che aveva rinunciato all’endorsement di un candidato alla presidenza così come aveva fatto il Washington Post. C’è pure Topolino (la Disney ha accettato di pagare un risarcimento di 15 milioni di dollari a Trump rinunciando a presentare ricorso in una causa per diffamazione), prostrato davanti al nuovo presidente. La disegnatrice Telnaes si è dimessa e ha accusato il Washington Post di aver compiuto un atto “pericoloso per la libertà di stampa”.
Il caso conferma come la scelta dell’editore di non schierare il Post prima del voto, rompendo una lunga tradizione, non era stata presa come segno di rispetto verso gli elettori – che in parte sono rimasti delusi e hanno protestato – ma come una forma di cautela per evitare di incorrere nelle possibili reazioni del candidato repubblicano. Quasi che il giornale avesse timore di esprimersi, prima con un editoriale e oggi con una vignetta. Il Washington Post è un’istituzione: è il giornale che scoprì lo scandalo Watergate e costrinse alle dimissioni il presidente Nixon, è il giornale che pubblicò i Pentagon Paper, i documenti segreti sull’intervento degli Stati Uniti in Vietnam. Da entrambi i casi sono originati libri di successo e due grandi film. Sorprende, dunque, che una testata autorevole, edita da uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo, rinunci alla sua storia e ai suoi principi.
Che tipo questo Zuckerberg
I segnali di una sensibilità mutata del mondo dell’impresa, compresa quella editoriale, verso i prevalenti interessi della politica sono però anche altri e diversi. Proprio in coincidenza con il caso della vignetta non pubblicata sul Washington Post, è giunta la notizia che Meta-Facebook ha deciso di rimuovere il presidente degli Affari globali, Nick Clegg già vice primo ministro britannico, laburista, oggi un po’ ingombrante. Al suo posto Zuckerberg ha scelto Joe Kaplan, un repubblicano che gestisce le relazioni tra il partito di Trump e le Big Tech. Non sembra una sostituzione casuale. In più Zuckerberg ha cancellato la politica di fact checking, lasciando campo libero alle menzogne spacciate per notizie, e ha eliminato il piano aziendale a favore delle diversità e inclusione. Un vero reazionario.
Si può concludere ricordando che pochi giorni fa la giornalista tedesca Eva Marie Kogel si è dimessa dopo che il suo giornale Welt am sontag aveva pubblicato un articolo di Elon Musk in cui, intervenendo nella campagna elettorale, sosteneva che “solo Alternative fur Deutschland può salvare la Germania”, un invito a scegliere un partito di estrema destra, razzista, antisemita, che nega le responsabilità tedesche nell’Olocausto. Un po’ troppo, tanto da suscitare anche la reazione del capo dello Stato tedesco, Steinmeier, che ha avvertito:” L’influenza esterna è un pericolo per la democrazia: sia quando è nascosta sia quando è aperta e palese come avviene in modo intenso su X”.
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