C’è qualcosa di straordinariamente umano nel modo in cui Remo Sabbatucci, artigiano e custode di un’antica falegnameria a Spoleto, intreccia passato e futuro. Le sue parole non si limitano a raccontare una storia, ma invitano a riflettere su ciò che stiamo lasciando indietro nella corsa verso l’innovazione. È un dialogo tra il legno che scivola sotto le sue mani esperte e i bit che scandiscono il ritmo della modernità.
“È innegabile, la tecnologia aiuta,” apre questa intervista Sabbatucci, quasi con un sospiro che lascia intravedere il peso delle scelte. La sua falegnameria ha accolto macchinari a controllo numerico, strumenti che accelerano la produttività e che, curiosamente, hanno richiesto nuove competenze. “Una persona qualificata è indispensabile per far funzionare quelle macchine,” sottolinea, sfidando lo stereotipo che vede l’automazione come nemica dell’occupazione. Eppure, la sua è una fiducia guardinga. Racconta un episodio recente: un guasto nel sistema bancario ha paralizzato i pagamenti a livello nazionale. “Un sistema totalmente digitalizzato è fragile,” afferma. Non è solo un monito tecnico, ma una metafora della nostra dipendenza. La sua visione non è apocalittica, ma profondamente consapevole: l’equilibrio tra innovazione e sicurezza è fragile come una trave appena tagliata, che ancora non ha trovato la sua forma definitiva.
Il cuore del discorso di Sabbatucci pulsa davvero quando parla di persone. “Quando acquisti qualcosa online, interagisci con uno schermo. Nei grandi magazzini, il rapporto umano è un accessorio superfluo.” Nella sua falegnameria, il tempo sembra dilatarsi. Ogni cliente viene accolto con un’attenzione che va ben oltre la mera transazione. “Ti ascolto, parliamo, analizzo ciò di cui hai bisogno. La tecnologia non può replicare questo,” dice, e nel dirlo sembra quasi difendere un’idea di artigianato che non è solo un mestiere, ma una filosofia.
Quello che Sabbatucci ci invita a fare non è scegliere tra tradizione e progresso, ma cercare un’armonia. La sua bottega è il simbolo di questo equilibrio: un luogo dove le macchine sono servitrici della creatività umana, non il contrario. “Le mani restano fondamentali,” dice, e in questa frase c’è la rivendicazione di un’umanità che non vuole essere sostituita, ma potenziata, valorizzata.
Ascoltando le sue parole, viene da chiedersi: quanto siamo disposti a sacrificare sull’altare dell’efficienza? E vale davvero la pena correre il rischio di perdere ciò che ci rende unici? Sabbatucci non dà risposte definitive, ma lascia aperte le domande, come una porta socchiusa che invita a guardare oltre. E forse, è proprio in questo spazio di riflessione che possiamo iniziare a costruire un futuro più equilibrato.
C’è una certa urgenza nelle parole di Remo, quasi il timore che, nella fretta di abbracciare il futuro, si dimentichino le radici. Il falegname di Spoleto, voce di un artigianato che resiste all’omologazione, guarda con preoccupazione all’avanzata dell’intelligenza artificiale (IA). Non è paura del progresso in sé, ma di un progresso che rischia di cancellare ciò che di più prezioso ha da offrire l’essere umano: l’autenticità. “Stanno creando una realtà sempre più distante dall’autenticità,” afferma Sabbatucci, puntando il dito contro un’IA che, simulando interazioni umane, finisce per svuotarle del loro significato. Cita esempi di tecnologie che automatizzano i processi, replicano il calore delle relazioni umane senza mai possederlo davvero. “Questi sviluppi stanno, secondo me, rovinando l’ambiente e mettendo in pericolo attività come la mia.” Le sue parole non sono un lamento sterile, ma un grido di allarme per un’umanità che rischia di diventare sempre più spettatrice del proprio declino manuale.
Alla tecnologia si somma un’altra sfida: l’assenza di manodopera qualificata. “Non trovo più nessuno disposto a imparare il mestiere,” confessa Sabbatucci con amarezza. È un paradosso doloroso: in un paese dove il lavoro è una priorità, il mestiere artigianale viene visto come un investimento privo di valore. “Le persone si rivolgono a soluzioni alternative, ma la qualità del nostro artigianato resta ineguagliabile.” Questa crisi, secondo lui, non è solo economica, ma culturale: una perdita collettiva di curiosità e pazienza per imparare ciò che richiede tempo e dedizione. Eppure, Sabbatucci non è un nostalgico. Non invoca un ritorno a un passato idealizzato. “La tecnologia ha portato molti vantaggi,” ammette, ribadendo che il problema non è il progresso, ma come lo si utilizza” specifica. La sua è una richiesta di equilibrio: mantenere il meglio della tradizione e della manualità senza rinunciare alle opportunità offerte dall’innovazione. È un concetto che sembra semplice, ma che nella pratica richiede un impegno continuo e collettivo.
Nelle sue parole c’è un invito a considerare i valori che troppo spesso vengono sacrificati sull’altare dell’efficienza economica: il rapporto umano, l’attenzione al dettaglio, l’arte di fare le cose con le proprie mani. La piccola falegnameria di Sabbatucci è il simbolo di un patrimonio che non possiamo permetterci di perdere, un faro di autenticità in un mondo che spesso sembra preferire le scorciatoie. Mentre i droni consegnano pacchi e i servizi si automatizzano, la riflessione di Sabbatucci ci invita a fermarci, a domandarci cosa stiamo guadagnando e cosa stiamo perdendo. Non è solo una questione di nostalgia o tradizione, ma di identità. La sua voce si unisce a un dibattito globale sull’equilibrio tra tecnologia e umanità, ricordandoci che l’efficienza ha un costo e che, a volte, quel costo potrebbe essere troppo alto.
“Si parla di droni per le consegne,” esordisce Sabbatucci, “possono consegnare centinaia di pacchi al giorno,” riconosce, ma la domanda che pone è tagliente: a che costo? Non è solo una questione economica, ma umana. Ogni pacco consegnato da un drone rappresenta un lavoro perso, un legame spezzato, una tradizione che si dissolve. Sabbatucci ricorda il caso di un dipendente licenziato perché non riusciva a rispettare i ritmi imposti dalla tecnologia. “L’efficienza viene messa sopra tutto,” riflette, “ma cosa succede al rapporto di fiducia, al calore umano? La tecnologia può essere veloce, ma è anche fredda, impersonale, disumanizzante.” Nella falegnameria di Sabbatucci, il rapporto umano non è un elemento accessorio, ma il cuore pulsante di ogni progetto. “Quando un cliente entra, non è solo lavoro,” dice con un sorriso che sembra riempire il laboratorio. “Si crea un dialogo, uno scambio di idee, un rapporto di fiducia.” Non è un processo che si può velocizzare o automatizzare: richiede tempo, empatia, attenzione. “È come fare lo psicologo,” scherza, ma non troppo. Il suo lavoro va oltre il semplice creare mobili: interpreta desideri, coglie sfumature, costruisce soluzioni che vanno oltre il prodotto, arrivando al cuore di chi lo ha commissionato. “La tecnologia non potrà mai sostituire questo,” afferma con convinzione, ricordando che ciò che rende speciale un artigiano non è solo la tecnica, ma la capacità di creare legami.
Oltre ai droni e all’automazione, Sabbatucci punta il dito contro un’altra conseguenza della digitalizzazione: l’esclusione. “Ora, anche per prendere un appuntamento dal medico, serve un’app,” osserva con disappunto. “Ma cosa fa una persona anziana che non ha dimestichezza con questi strumenti? È come se il sistema stesse dicendo loro: ‘Non c’è più posto per voi.’” È un’accusa forte, ma ben motivata. La tecnologia, invece di unire, rischia di dividere, creando un mondo in cui chi non è al passo resta indietro. “Non si tratta solo di semplificare, ma di includere,” sottolinea, ribadendo l’importanza di progettare un futuro che non lasci nessuno indietro.
Nelle parole di Sabbatucci, tecnologia e umanità non sono nemici, ma due forze che devono imparare a coesistere. Il problema non è l’innovazione in sé, ma l’uso che ne facciamo. “La tecnologia non deve servire a eliminare il contatto umano, ma a potenziarlo,” dice. È un concetto semplice, ma spesso ignorato: l’efficienza non può essere l’unico metro di giudizio. Il paradosso della tecnologia, come lo descrive Sabbatucci, non è tanto nel progresso, ma nella direzione che sta prendendo. Il suo laboratorio è una metafora di ciò che potremmo perdere: un luogo dove ogni interazione ha un valore unico, dove il lavoro è fatto non solo con le mani, ma con il cuore. Riusciremo a costruire un mondo che valorizzi questi legami? È una domanda che rimane aperta, ma le sue parole ci spingono a cercare risposte che vadano oltre la mera convenienza.
La pandemia ha accelerato processi che già avanzavano rapidamente, spingendo il mondo verso una digitalizzazione che sembrava inevitabile. Remo Sabbatucci, falegname di Spoleto, osserva questo cambiamento con un misto di pragmatismo e preoccupazione. Nelle sue parole si percepisce il desiderio di trovare un punto di incontro tra le opportunità offerte dalla tecnologia e la necessità di preservare ciò che rende il lavoro e le relazioni umane davvero significative. “Capisco l’utilità dello smart working,” afferma Sabbatucci, riconoscendo i benefici che ha portato, soprattutto durante il periodo di emergenza sanitaria. “Per mio figlio, che lavora al computer, è una soluzione perfetta.” Eppure, il falegname non può fare a meno di sottolineare i limiti di questa modalità. “Ci sono lavori, come quelli comunali, che richiedono la presenza fisica. Se hai bisogno di parlare con qualcuno e quella persona non è in ufficio, cosa fai?” La sua riflessione va oltre il semplice aspetto organizzativo: si interroga su cosa significhi perdere il contatto diretto con le persone, quel rapporto che è tanto umano quanto necessario.
Per Sabbatucci, il problema non è la tecnologia in sé, ma il modo in cui viene utilizzata. “La tecnologia è uno strumento, non un sostituto,” ribadisce con fermezza. Non demonizza il progresso, ma invita a utilizzarlo con intelligenza, preservando il ruolo delle persone nei processi lavorativi. “Servono regole,” suggerisce, “che garantiscano che dietro ogni attività ci sia sempre un essere umano.” Non è una nostalgia sterile per il passato, ma una proposta concreta per un futuro più equilibrato.
“Stiamo andando troppo oltre,” avverte Sabbatucci, evidenziando i rischi di un’eccessiva fiducia nei macchinari e negli algoritmi. “Se continuiamo così, rischiamo di perdere completamente il contatto umano.” È una riflessione che va oltre il suo mestiere di artigiano: parla di una società che, nel nome dell’efficienza, sembra dimenticare ciò che rende il lavoro e la vita davvero significativi.
Le parole di Sabbatucci non sono solo una critica, ma un invito a riflettere. “Dobbiamo usare la tecnologia per migliorare la vita delle persone, non per renderla più fredda e distante.” È un richiamo a non perdere di vista i valori fondamentali: l’empatia, la connessione umana, il senso di comunità. Per lui, questi elementi non sono optional, ma il cuore di ciò che rende il lavoro un’esperienza autentica e arricchente.
Mentre il mondo continua a trasformarsi sotto la spinta della digitalizzazione, la voce di artigiani come Sabbatucci ci ricorda l’importanza di fermarci e riflettere. Nel laboratorio di Sabbatucci, tra il profumo del legno e il calore del dialogo, si intravede un modello di lavoro che potrebbe ispirare anche il futuro: un luogo dove la tecnologia è al servizio delle persone, e non il contrario. È qui che il progresso e l’umanità possono davvero incontrarsi.
Libreria realizzata dalla Falegnameria Sabbatucci
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