Sempre più condannate al patibolo, l’Iran ha paura della libertà delle donne

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Celle che sembrano tombe, con le pareti che ti si stringono addosso. La luce sempre accesa o l’oscurità totale 24 ore su 24. Poco cibo, la privazione di tutto. Cecilia Sala ha avuto un doloroso assaggio di quello che subiscono i detenuti nelle carceri iraniane e di quanto sia facile finire dietro alle sbarre con accuse prive di fondamento. Uscendo dalla prigione di Evin, la giornalista ha detto di essersi sentita in colpa sapendo di lasciarsi alle spalle altre donne innocenti come lei. Ed è sembrato quasi uno sfregio, di fronte alla sua liberazione, l’arroganza con la quale pochi giorni dopo è stata condannata a morte Pakhshan Azizi, attivista per i diritti delle donne e assistente sociale. Curda, impegnata nei campi degli sfollati in Siria, Azizi era stata condannata dal Tribunale rivoluzionario di Teheran il 24 luglio scorso con l’accusa di «ribellione armata contro lo Stato», un’accusa che spesso viene formulata nei confronti di appartenenti a minoranze etniche come i curdi e più ancora i beluci. Per costringerla a confessare, sono stati arrestati e torturati anche i suoi familiari, senza successo. Non c’è stato nessun equo processo, non è stato necessario dimostrare niente. La condanna a morte ha punito il suo rifiuto di incolparsi e di incolpare altri.

Pakhshan Azizi, foto Amnesty International

Il caso di Azizi non è purtroppo isolato. Sempre più spesso il regime ricorre alla pena capitale per diffondere il terrore e frenare qualsiasi manifestazione di opposizione o di resistenza politica, culturale o sociale. E sempre più spesso le donne finiscono sul patibolo, tanto più da quando il movimento “Donna, vita, libertà” ha messo in luce la carica potenzialmente eversiva del loro rifiuto di assoggettarsi all’apartheid di genere esercitato dal regime.

I numeri testimoniano l’incremento della repressione, che riguarda l’intera società iraniana ma ha subito una forte accelerazione contro le donne. Lo scorso anno le condanne a morte sono state complessivamente 901, contro le 853 del 2023, cifre che secondo Amnesty International fanno dell’Iran il paese dove l’omicidio di Stato è più diffuso, subito dopo la Cina. Rispetto al totale, le donne mandate al patibolo sono relativamente poche, almeno 32, ma è impressionante la sequenza: erano state 22 nel 2023, mentre nel 2022 erano 14.

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Donne al patibolo

Negli ultimi 14 anni, secondo stime di Iran Human Rights, in Iran sono state giustiziate 241 donne. I dati del periodo precedente sono meno precisi, si sa per certo che ci sono stati massacri di donne della minoranza bahai nel 1983, mentre manca una lista completa delle donne mandate a morte nelle esecuzioni di massa nelle carceri avvenute nel 1988, seguendo le indicazioni di una fatwa emessa da Khomeini che intimava l’eliminazione dei dissidenti in quanto nemici di Dio (si stima che 5000 persone vennero uccise in quel periodo). Furono tante le donne uccise e prima di morire per mano di un regime che predica velo e castità furono stuprate, per  precludere loro il paradiso che secondo una credenza diffusa nell’Islam spetterebbe alle vergini.

Secondo il rapporto di Iran Human Rights l’accusa più comune è quella di omicidio, sui 241 citati sono 114 i casi, seguiti a ruota da reati legati alla droga, 107. Appena l’1,7 per cento delle condanne riguardano accuse connesse alla sicurezza dello Stato, mentre nel 6,6 per cento dei casi, 16 detenute, neppure si conoscono i reati contestati. Va detto anche che spesso non si conoscono neanche i nomi delle donne giustiziate o vengono indicate solo le loro iniziali, mentre il regime sembra avere un certo pudore nel diffondere l’annuncio della loro esecuzione: lo rende noto ufficialmente poco più di una volta su quattro.

La maggior parte delle donne accusate di omicidio erano vittime di violenza e abusi domestici, nove erano spose bambine, mentre tre di queste erano ancora minorenni al momento del reato. Condannate a morte in base all’istituto della qisas, che lascia ai familiari della vittima la decisione di “compensare” la perdita prendendosi un’altra vita, quella del colpevole. L’Iran Human Rights cita il caso di Zahra Esmaili, costretta a sposare un funzionario del Ministero dell’Intelligence, che l’aveva violentata e messa incinta. Nel 2007 la donna è stata accusata di averlo ucciso e spettava alla suocera eseguire personalmente la condanna. Esmaili però è morta di infarto mentre veniva giustiziato un gruppo di detenuti prima di lei. “Eppure hanno impiccato il suo corpo senza vita”, denuncia il rapporto dell’ong.

Vite senza valore

La voce reati legati alla droga, comune nella maggior parte delle condanne a morte comminate anche agli uomini, è invece molto frequentemente un modo per celare sotto un crimine comune e infamante un atto di pura e semplice repressione contro dissidenti o partecipanti a proteste.

“Le donne iraniane affrontano una persecuzione implacabile, a causa delle loro idee o dei loro legami con gruppi di opposizione o della semplice partecipazione alle proteste – ha detto ad Agenda 17 Shahrzad Sholeh, presidente dell’Associazione delle donne democratiche iraniane in Italia – Fare una qualsiasi attività politica mette le donne in pericolo e quando sono arrestate, le torture più feroci sono sulle donne”. Per essere condannate, basta un’accusa generica come “inimicizia contro Dio”. Nei tribunali i processi contro le donne sono se possibile ancora più sbrigativi e superficiali: la loro vita vale meno, del resto il Codice penale iraniano consente al padre di uccidere le figlie senza rischiare nulla più del carcere o del pagamento di una somma di denaro.

Masha Amini

Nel dicembre scorso era prevista l’entrata in vigore della legge per la protezione della famiglia tramite la cultura della castità e dell’hijab, sospesa in extremis in attesa di emendamenti del governo: la nuova normativa oltre ad una serie di misure repressive per il mancato uso del velo o per “abbigliamento inappropriato” (che consisteva nel mostrare qualsiasi parte del copro dal collo in giù con esclusione di mani e piedi), prevedeva la detenzione e persino la pena di morte se il comportamento dell’interessata fosse stato giudicato come “corruzione sulla terra”.

La pena capitale per essersi ribellate al velo, o anche solo per essere state giudicate malvelate dalla polizia morale, del resto è già stata applicata nei fatti più di una volta. Masha Amini è morta per le percosse dopo essere stata fermata perché mostrava una ciocca di capelli, la sua fine ha innescato il movimento “Donna, vita libertà”, ma altre hanno seguito la sua stessa sorte per aver partecipato alle proteste a capo scoperto. E senza essere mai passate davanti a un giudice.

E’ di queste ore la notizia dell’assassinio di due giudici davanti alla Corte Suprema di Teheran, la stessa che ha confermato la pena capitale per Azizi e che si appresta a fare lo stesso per Varisheh Moradi attivista ambientale e per i diritti delle donne. I due giudici, secondo il quotidiano iraniano Mizan lavoravano a casi si “crimini contro la sicurezza nazionale, spionaggio e terrorismo”, casistiche anche queste che si applicano a dissidenti e oppositori. Non si sa molto dell’agguato, se non che l’attentatore era dipendente del ministero della Giustizia e che si è poi suicidato, le autorità puntano il dito sulla lunga mano di Israele. Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, su Istagram la mette così: “Il loro omicidio è il risultato di comportamento, procedure e repressioni del sistema giudiziario. Chi semina vento, raccoglie tempesta”.

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