Nella Giunta delle elezioni della Camera è andato in scena un episodio di neocapitalismo delle istituzioni. Il voto popolare dovrebbe essere la voce di chi non ha voce. E invece il potere ci schiaccia ancora
Un’altra pagina nera, c’è un odore acre nell’aria, quello di una terra che si ostina a gridare la propria dignità, ma che continua a essere calpestata da mani invisibili. O forse, più che invisibili, sono mani che non vogliono essere viste, perché sanno troppo bene che il loro agire è vergognoso.
Oggi in un’Italia ancora una volta spezzata, assistiamo all’ennesimo episodio di ciò che io definirei “neocapitalismo delle istituzioni“: un potere che si traveste da democrazia per soffocare il dissenso, per neutralizzare il popolo. La Calabria, da sempre terra ferita, ha provato a spezzare le catene delle dinastie politiche, di quei padroni che per quarant’anni hanno imposto il loro dominio, lasciando dietro di sé solo macerie. Lo ha fatto con un grido di rottura, un atto di insubordinazione morale, come una lama nel ventre molle dell’abitudine. Ma questo grido è stato soffocato. L’atto che doveva rappresentare la volontà popolare è stato strappato via, cancellato con un’arroganza che urla più forte della giustizia.
I fatti sono chiari, nel collegio uninominale di Cosenza, il Movimento 5 Stelle aveva ottenuto la fiducia del popolo, rompendo quel patto non scritto che lega la politica locale ai soliti nomi e alle solite famiglie. Ma questa fiducia è stata spazzata via da una decisione della Giunta elettorale, dove il centrodestra, guidato in questa battaglia da Forza Italia inchinata ad Andrea Gentile, ha preteso e ottenuto la cancellazione di quel risultato. Con quale legittimità? Con quale coraggio? La presenza dei loro rappresentanti di lista, dichiarata “per magia” anche da assenti a ventuno chilometri di distanza, è una farsa tanto grottesca quanto inquietante. E allora mi chiedo: se questa è la prassi, dov’è finito il diritto? Dov’è la democrazia, dov’è la Repubblica? Siamo tornati indietro, nella Sala della Lupa, dove un tempo veniva proclamata la nascita della Repubblica. Oggi, in quello stesso luogo, la Repubblica è stata tradita. Un pezzo della nostra democrazia si è sgretolato, non con un boato, ma con il rumore sordo di una carta bollata, di una procedura che annulla ogni speranza. Come possiamo chiamarci ancora Repubblica, se permettiamo che il popolo venga così umiliato? Se accettiamo che i rappresentanti non siano altro che comparse in un teatro di burattini? La Giunta elettorale ha ascoltato “l’inascoltabile”, ha accettato che il potere si autoassolvesse e che l’assenza fisica di rappresentanti di lista si trasformasse, miracolosamente, in presenza. Un paradosso che si consuma a 21 chilometri di distanza, un dono dell’ubiquità che non ha nulla di divino, ma tutto di cinico. Ecco, allora, che le Istituzioni, nate per servire, si piegano ancora una volta al volere dei potenti, offrendo l’immagine di un’Italia sempre più stanca, svuotata, corrotta. Non è solo una sconfitta politica, non è solo la perdita di un seggio. È la morte simbolica di un’idea: quella che il voto popolare possa essere la voce di chi non ha voce. Ed è questa l’Italia che non riesco più a riconoscere, l’Italia che giorno dopo giorno vedo sgretolarsi davanti ai miei occhi, vittima di un sistema che non sa più distinguere tra giustizia e sopruso.
Oggi perdiamo tutti qualcosa, non solo un deputato alla Camera. Perdiamo un pezzo di comunità, perdiamo il senso di appartenenza, perdiamo quella scintilla di orgoglio che dovrebbe tenerci uniti. E tuttavia, nonostante tutto, resto con una domanda che mi brucia dentro: cosa facciamo, noi, testimoni di questa ingiustizia? Ci indigniamo e basta? Lasciamo che la macchina del potere ci schiacci lentamente, come un rullo compressore che non conosce pietà? Io non voglio arrendermi a questa prospettiva, io credo ancora nella dignità e nel diritto di dire no. Ed è questo il messaggio che voglio lanciare, per la Calabria e per l’intero Paese: non abbiate paura di spezzare le catene. Non abbiate paura di gridare. Perché è nel silenzio che il potere trova la sua forza. Sì, oggi hanno perso la dignità quei signori seduti a Montecitorio. Ma noi? Noi dobbiamo ancora difendere la nostra.
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