La morte è invisibile?
È una domanda molto diretta e forse poco gradita, quella che nasce scorrendo l’articolo appena pubblicato sul British Medical Journal. Chi lo firma è Lucy Selman, professoressa di Cure palliative e di fine vita presso l’Università di Bristol e direttrice fondatrice del Good Grief Festival. Sì, avete letto bene. Nel 2020, la professoressa Selman ha dato vita ad un vero e proprio Festival del Buon Lutto – e ad una comunità – che ha come obiettivo di «fa diventare normale il dialogo sul dolore e dimostrare che si tratta di una parte naturale, e persino trasformativa, della vita, anziché qualcosa da temere e da tenere nascosta». Selman ne scrive, facendo riferimento alla situazione nel Regno Unito. Ovviamente, però, le sue sono considerazioni universali.
«Spesso, i desideri pratici ed emotivi di chi è in fin di vita rimangono inespressi, mentre gli ultimi giorni di vita continuano ad essere caratterizzati da interventi medici inutili», sottolinea Selman.
Nel Regno Unito si è acceso un forte dibattito intorno alla morte assistita ed è stata annunciata la creazione di una commissione parlamentare per migliorare le cure palliative. Ma l’autrice fa presente che la commissione dovrà affrontare «questioni strutturali più ampie che modellano il modo in cui le persone muoiono e soffrono. Proprio come i determinanti sociali (reddito, occupazione, alloggio, istruzione, disabilità e reti di supporto sociale) modellano la nostra salute in vita, modellano anche il modo in cui moriamo. Senza un approccio di sanità pubblica di vasta portata e integrato alle cure di fine vita e al lutto, continueremo solo ad armeggiare ai margini di un sistema complesso.
Le persone gravemente malate e in fin di vita trascorrono solo circa il 5% del loro ultimo anno sotto la diretta cura dei servizi sanitari, con amici, familiari e membri della comunità senza formazione sanitaria che forniscono gran parte del supporto rimanente. Tra il 75% e il 90% dell’assistenza domiciliare alla fine della vita è fornita da assistenti non retribuiti, spesso familiari. È tempo di cambiare l’attenzione e mettere le famiglie e le comunità al centro della gestione della morte, del lutto e del dolore. Ma per questo ruolo hanno bisogno di risorse complete, istruzione e supporto».
C’è bisogno di una «alfabetizzazione» sulla morte
L’autrice sottolinea come l’esperienza della pandemia di COVID-19 abbia imposto una riflessione collettiva sulla morte, «ma questa consapevolezza non si è tradotta in azioni concrete. Solo il 14% delle persone nel Regno Unito ha discusso apertamente delle proprie volontà di fine vita. Termini come “piano di cura anticipata” o “do not attempt cardiopulmonary resuscitation” (DNACPR o DNAR una disposizione anticipata di trattamento, con la quale un paziente esprime, di solito in forma scritta e su un apposito modulo , la propria volontà di non essere sottoposto alle manovre di rianimazione cardiopolmonare che teoricamente potrebbero salvargli la vita) rimangono poco conosciuti. Inoltre, un terzo delle persone non è convinto che i medici rispetteranno le loro preferenze, riflettendo una crisi di fiducia nei sistemi sanitari». Vi ricorda qualcosa? Non è una situazione sovrapponibile anche a quella italiana?
Lutto e isolamento: il silenzio che ferisce
Alzi la mano chi non d’accordo con questa considerazione: il lutto è spesso affrontato con imbarazzo o evitamento. «La paura di “dire la cosa sbagliata” porta molti a non offrire il sostegno necessario. Concetti erronei, come l’idea che il dolore debba seguire precise “fasi” o avere una durata limitata, isolano ulteriormente chi soffre. In alcune culture il lutto è una manifestazione condivisa e prolungata; in altre, come nei paesi occidentali, è spesso relegato alla sfera privata o delegato a professionisti, privando le comunità del loro ruolo tradizionale», sottolinea Selman. Anche le norme culturali modellano il dolore: negli Stati Uniti, il «disturbo da dolore prolungato» è una diagnosi per il dolore intenso dopo 12 mesi, mentre in Egitto il «dolore lacrimoso» anni dopo una morte è considerato sano.
La medicalizzazione della morte
L’esperta tocca un altro «nervo scoperto» sulla fine della vita: «Negli ultimi decenni, la morte è stata sempre più medicalizzata, spostandola dalle case alle strutture sanitarie. Questo processo ha ridotto la morte a un evento clinico, ignorando le dimensioni emotive, sociali e spirituali. Una volta, riti come la preparazione del corpo e le veglie funebri erano comuni; oggi, questi gesti sono scomparsi, sostituiti da approcci più distaccati e spesso commercializzati. Anche i professionisti sanitari, spesso non adeguatamente formati, faticano a gestire conversazioni sulla morte. Tuttavia, queste discussioni sono fondamentali per consentire ai pazienti di pianificare con dignità i loro ultimi giorni».
Lo sapevate? Nell’induismo, nel sikhismo e nell’Islam i rituali funebri solitamente includono il lavaggio e la copertura del corpo da parte dei familiari. In alcune parti del Regno Unito era comune fino alla metà del XX secolo che le famiglie gestissero la morte a casa. Nei villaggi dello Yorkshire, ad esempio, le donne erano molto orgogliose di “disporre” i morti. I membri della famiglia si sedevano a turno accanto al corpo durante la notte. Una donna, la “bidder”, era impiegata per bussare a ogni casa per fare un’offerta o invitare la famiglia a partecipare al funerale.
Non so quanti di noi sarebbero disposti a tornare a praticare riti simili. Siamo cambiati noi ed è cambiata la società. La medicalizzazione della morte, forse, ci aiuta ad esorcizzarla. Ma è senz’altro vero che, da parte medica, è difficile trovare qualcuno capace di accompagnarti in questi frangenti. Di fronte ad un Servizio sanitario nazionale – il nostro come quello inglese – lasciato alla deriva, sarebbe chiedere troppo?
Cure palliative: una priorità trascurata
E arriviamo anche al capitolo delle cure palliative. Scrive Selman: «In molti casi, la qualità della vita è sacrificata sull’altare della ricerca di cure».
Alcuni dati forniti dall’esperta possono aiutare ad inquadrare meglio la realtà del Regno Unito: «Circa il 90% di chi sta per morire trarrebbe beneficio dalle cure palliative, ma il 25% non le riceve. La domanda è destinata a crescere del 25% nei prossimi 25 anni, con l’aumento della durata della vita e la maggiore complessità delle condizioni di salute, ma il settore è già gravemente sottofinanziato e sovraccaricato. Solo un terzo dei finanziamenti per gli hospice nel Regno Unito proviene dallo Stato, mentre il restante miliardo di sterline viene raccolto annualmente tramite negozi di beneficenza, eventi di raccolta fondi e donazioni. Questo divario di finanziamento invia un messaggio chiaro: l’assistenza ai morenti è meno apprezzata rispetto ai trattamenti aggressivi e ai progressi medici ad alta tecnologia».
«Questo modello di finanziamento frammentato lascia nelle comunità rurali e in altre comunità svantaggiate evidenti lacune nell’assistenza, in particolare per i bambini. Con l’aumento della domanda di cure palliative, diventa sempre più urgente la necessità di un adeguato finanziamento governativo per la fornitura di cure di fine vita nelle case di cura e nella comunità, compresi gli hospice»..
«Nel frattempo, sussistono forti disuguaglianze nell’accesso ai servizi di hospice, cure palliative e di lutto. Le comunità emarginate affrontano il maggior numero di ostacoli nell’accesso al supporto in un momento in cui la compassione è più necessaria. I gruppi di minoranze etniche, in particolare, incontrano barriere linguistiche, un’assistenza inadeguata e una carenza di operatori culturalmente competenti. Il trenta percento delle persone appartenenti a gruppi di minoranze etniche, ma solo il 17% dei bianchi, afferma di non fidarsi degli operatori sanitari per fornire cure di fine vita di alta qualità»..
«Per colmare tali lacune, i servizi e gli interventi di hospice e cure palliative dovrebbero essere co-prodotti con e per le comunità svantaggiate. L’accesso alla pianificazione anticipata delle cure, ad esempio, può essere migliorato tramite l’uso di metodi partecipativi basati sulle arti e collaborando con organizzazioni comunitarie di fiducia per garantire che le informazioni e il supporto siano culturalmente appropriati e accessibili in più formati e lingue».
La morte come evento comunitario
Il dibattito su come riuscire a creare una maggiore integrazione fra attori e servizi è apertissimo. Secondo la professoressa Selman «la morte non è solo un’esperienza individuale, ma un evento che coinvolge le comunità. Modelli come il concetto di “Compassionate Cities” (https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(23)02269-9/abstract) dimostrano che è possibile costruire reti di supporto comunitario per i morenti e i loro cari. Tuttavia, per rendere questi approcci sostenibili, è necessaria una collaborazione sistematica tra enti sanitari, autorità locali e organizzazioni di volontariato. Un approccio sanitario pubblico integrato può trasformare il modo in cui affrontiamo la morte, rafforzando le connessioni sociali e promuovendo la resilienza delle comunità».
L’impatto di media e educazione
I media – e chiunque di noi ne faccia parte – dovrebbero recitare il mea culpa. Proprio perché hanno un ruolo cruciale nel modellare le percezioni della morte ma spesso offrono rappresentazioni distorte o sensazionalistiche, rafforzando paure irrazionali.
«Promuovere una narrazione più realistica può aiutare a creare una maggiore consapevolezza pubblica. Anche l’educazione è fondamentale: il lutto e la morte dovrebbero essere inclusi nei programmi scolastici per preparare le future generazioni ad affrontare queste sfide. Per i professionisti sanitari, sviluppare competenze empatiche è essenziale per umanizzare la cura e costruire fiducia con i pazienti», aggiunge Selman.
Insomma, affrontare la morte diversamente richiede coraggio e impegno collettivo. Investire nelle cure palliative, ridurre le disuguaglianze e promuovere un dialogo aperto sono passi indispensabili per costruire una società più empatica e consapevole. In ultima analisi, riconoscere la morte come parte della vita è il primo passo verso una vera rivoluzione culturale.
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