Luogo della natura incontaminata e della naturalità, del silenzio o del divertimento, in contrapposizione alla vita inquinata, degradata e triste della città, l’Alpe del Nonno (di Heidi) versus Francoforte, che bene racconta Miyazaki. Quando si pensa alla montagna è difficile emanciparsi dallo stereotipo alpino, alimentato anche da molte comunità locali per ragioni di sopravvivenza. In occasione della giornata della neve World Snow Day che si celebra la terza domenica di gennaio ed è patrocinata dalla Federazione Internazionale dello Sci, vale la pena ricordare che questa visione delle montagne come campo giochi a disposizione del nostro tempo libero o come luoghi sacro di trascendenza fisica e interiore ha radici lontane, ma è da superare per il bene stesso di quei territori i cui inverni saranno sempre meno bianchi.
«Il 75% del territorio italiana è al di sotto dei 1500 metri, sono poche le aree direttamente interessate dai caroselli sciistici e, quindi, toccate direttamente dall’economia dello sci» ricorda Mauro Varotto, docente di Geografia culturale all’Università di Padova e tra i componenti del comitato scientifico de L’AltraMontagna. Tre sono gli aggettivi che caratterizzano la neve oggi: «Scarsa, meno della metà della media dell’ultimo decennio; tardiva, quasi primaverile e quindi fonde presto; effimera, perché viene subito seguita da alte temperature». Una delle conseguenze più preoccupanti dell’avere poca neve riguarda l’albedo: «Si perde il potere riflettente del manto bianco della neve e la nuda montagna, rimanendo scura, assorbe la luce solare e si riscalda di più. È questa una delle ragioni per cui l’innalzamento della temperatura sulle Alpi è di 2 gradi centigradi, maggiore della media di 1,5 gradi».
I territori di montagna del boom economico degli Anni Sessanta sono rimasti prigionieri di un modello economico e di sviluppo che ha fatto il suo tempo. Riconvertire l’economia dello sci è una necessità, tra costi degli impianti, che rende lo sci uno sport d’élite, e cambiamento climatico. Dire addio allo sci non basta. «Serve una nuova alfabetizzazione della montagna, oggi ancora proiettata in una dimensione di desiderio, di cartolina idilliaca, fatta di vette, prati, flora, fauna e prodotti tipici genuini, senza essere umano alcuno. È una messinscena, una falsa rappresentazione buona per ogni località ad ogni longitudine» dice Varotto, che autore del saggio «Montagne di Mezzo» per Einaudi, una riflessione su quei territori intermedi che sono dotati di una loro identità culturale e dinamismo, i cui modelli produttivi e tessuti sociali non rientrano nelle immagini stereotipate e idilliache funzionali all’attuale sfruttamento economico e turistico. «Il turismo che ama stelle alpine, piccozze e baite, aquile e stambecchi, simboli di tradizioni e ritmi autentici» spiega Varotto «è dentro quello stesso modello di sviluppo economico del turismo dello sci».
Tocca a noi sbarazzarci dell’illusione di una montagna autentica che è in opposizione a quanto è cittadino. «La compensazioni a distanza di chi, in settimana, sacrifica tutto sé stesso, esaurisce il proprio tempo e le risorse del mondo, e nel fine settimana vive un tempo libero alternativo fatto di svago, di silenzio e di natura». Anche se è evidente a tutti il cortocircuito del passo dolomitico intasato di moto e auto costose guidate da chi cerca il paradiso naturale senza rumori e veleni. Coloro che, invece, provando fastidio per il turismo di massa, ricercano con la fatica e il sudore le bellezze naturali in quota, ma poi si lamentano del rumore delle motoseghe al lavoro, mette in guardia Varotto, «dimostrano di non rendersi conto che la manutenzione di boschi, sentieri e bivacchi è opera dell’uomo e che il panorama è frutto di una gestione continua e attenta».
Ci vuole mediazione tra le esigenze del vivere quotidiano e le esigenze del tempo libero. E chi vive in montagna deve decidere se privilegiare il produrre o il vivere: «Ripensare il modello di montagna e farne una montagna multifunzionale, dalle molteplici dimensioni demografiche, agronomiche, ecologiche, che si autoregola quando uno dei suoi aspetti funziona meno. Laddove si spinge solo una dimensione, come lo sci, la montagna è più fragile, è più povera anche di orizzonte di senso» dice Varotto. «Ormai compresa la necessità di un nuovo modello di sviluppo, sulle montagne, oggi, si stanno già proiettando altre utopie, sempre di origine cittadina, ma forse più favorevoli, come quella orientata alla sostenibilità ambientale e sociale, che può essere una prova della sua fattibilità anche per altri. Le montagne sono ai margini, la liminalità è uno spazio che permette di sperimentare alternative che possono diventare un modello per la città, un orizzonte di possibilità».
Le montagne di mezzo del saggio di Varotto, al di là dei termini altimetrici, sono quei territori fuori dalle regole del turismo di sfruttamento d’alta quota e del modello economico produttivo della pianura. Quelle abbandonate; quelle le cui necessità sono state messe in secondo piano rispetto alla pianura, pronta a sfruttarne le risorse. Quelle che trovano interesse rinnovato nei media, perché meta dei “piani B” esistenziali e professionali di molte persone interessate a vivere e abitare quei territori per recuperarli a 360 gradi, nelle loro molteplici potenzialità (fenomeno destinato ad aumentare, come emerge anche dal bellissimo saggio «Viaggio nell’Italia dell’Antropocene. La geografia visionaria del nostro futuro», scritto da Varotto con Telmo Pievani per Raffaello Cortina, un testo denso e affascinante anche per lo stile scelto). Per Einaudi, il 4 febbraio, è in uscita un nuovo saggio di Varotto intitolato «Il primo libro di geografia».
Le montagne di mezzo sapranno forse riunire «quei tre mondi che non comunicano più, hanno perso quella complementarità costruita in secoli di economia agrosilvopastorale, raffigurati in questa foto: le vette illuminate, commodity per i foresti; il fondovalle in ombra, fatto di capannoni industriali che non si curano dell’ambiente attorno; la quota intermedia abbandonata, il rudere, simbolo della montanità perduta».
Ci sono montagne e montagne, locali e locali. Per quanto riguarda coloro, che per decenni hanno indossato i panni del montanaro autentico su misura, adeguandosi alle errate aspettative del visitatore, secondo Varotto sapranno con successo riconvertire l’economia dei propri territori solo quando sarà la richiesta del mercato a spingerli. Ci vuole un radicale cambiamento di prospettiva. Da parte di tutti.
Foto di John Cameron su Unsplash
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