Debito pubblico a 3 mila miliardi: chi ferma la slavina?

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Febbraio 1994, 12 dicembre 2012, 15 gennaio 2025. Tre date cerchiate in rosso sugli annali del ministero dell’Economia, a ricordare le vette più emblematiche della scalata del debito pubblico italiano: mille, duemila, tremila miliardi. Un’ascesa che, salvo rare soste, si è rivelata nell’ultimo mezzo secolo inarrestabile.

La notizia del superamento dei 3.000 miliardi di debito registrato a novembre è, per dirla con Mark Twain, «esagerata» o, quantomeno, prematura: la soglia psicologica è stata sì superata, ma a «drogare» la stima c’è il fattore stagionale. Tanto che, nella prossima rilevazione, il computo delle entrate tributarie dovrebbe riportare il totalizzatore sotto la fatidica soglia. Perché il dato diventi strutturale, occorrerà aspettare qualche mese. Ma il dado, ormai, è tratto.

Il rapporto con il pil

Come Bankitalia ha sottolineato con una nota tanto inusuale quanto opportuna, guardare alla cifra nuda e cruda risulterebbe fuorviante: è solo mettendo il debito in rapporto al pil che si può valutare correttamente «lo stato di salute delle finanze pubbliche». In questa prospettiva, peraltro, i segnali appaiono più promettenti: isolando il triennio 2021-2023, Via Nazionale mostra come il debito nominale è sì cresciuto di 292 miliardi, ma in rapporto al pil è sceso di 19 punti attestandosi al 136,8%.

Se, poi, il governo dovesse effettivamente tener fede a quanto messo nero su bianco nel Piano Strutturale di Bilancio, attuando le riforme e realizzando gli investimenti pianificati, i rischi per la sostenibilità del debito si ridurrebbero ancora di più. Certo: se, come prevedibile, il debito proseguirà nella sua corsa, a crescere contestualmente sarà anche la spesa per interessi: una dinamica che continuerà a distogliere risorse preziose per le casse dello Stato.

L’effetto spread sulle spese per interessi 

Anche da questo punto di vista, tuttavia, l’orizzonte del prossimo quinquennio appare meno a tinte fosche. Secondo un’analisi pubblicata nelle scorse settimane dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (autorità indipendente guidata da Lilia Cavallari), il duplice calo registrato tra agosto e dicembre 2024 dallo spread Btp-Bund (-35 punti, minimi dell’ultimo triennio) e dai rendimenti dei titoli italiani a breve (-60 punti) e lungo termine (-45 punti) potrebbe, insieme al taglio dei tassi Bce, determinare un alleggerimento della spesa per interessi sul debito fino a 17,1 miliardi al 2029. Trend, questo, che finirebbe per innescare un circolo virtuoso: meno spesa per interessi, meno rischi (e più appetibilità) per l’Italia, spread più basso, spesa per interessi in ulteriore contrazione.

Le premesse sembrano esserci tutte: l’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia, diffuso venerdì 17 gennaio, segnala che la discesa del differenziale di rendimento è proseguita tra ottobre e gennaio, complici i giudizi positivi espressi nei confronti dell’Italia (e auspicati dal capo dello Stato, Sergio Mattarella) da parte delle agenzie di rating statunitensi.

Giudizi positivi che sono frutto di una oculata gestione dei conti pubblici da parte del governo. Rispetto ai partner Ue, in questo frangente l’Italia sta mostrando una buona tenuta economica: molte misure dall’esecutivo sono state rese strutturali (taglio del cuneo e Irpef a tre aliquote), restituendo agli investitori l’immagine di una strategia credibile, soprattutto in rapporto alle tribolate sessioni di bilancio di Germania e Francia.

Tuttavia, la persistenza di un rapporto debito/pil ancora molto elevato finisce per esporre l’Italia a maggiori rischi ogni qualvolta – come in questa fase – il contesto globale si presenta incerto e instabile. Come ha sottolineato il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, occorre dunque tenere la guardia alta senza adagiarsi sugli allori. Anche perché sulla dinamica del debito non incide solo l’azione del governo, ma anche l’evoluzione della politica monetaria e le aspettative degli operatori di mercato che si riflettono sui tassi e, a cascata, sullo spread.

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I benefici per il deficit

Il raffreddamento del differenziale Btp-Bund, sottolinea l’Upb nel suo studio, garantirebbe benefici non solo sul fronte debito ma anche, nel breve-medio termine, sul deficit. Altra buona notizia, considerata la tagliola della procedura di infrazione per disavanzo eccessivo in cui l’Italia è incappata a Bruxelles a causa della bolla del Superbonus. Eventuali risparmi in termini di minore spesa per interessi sul debito potrebbero, peraltro, essere impiegati proprio nella riduzione del deficit, che l’ultimo bollettino di Palazzo Koch certifica in «calo significativo» nel 2024 (7,2%) proprio grazie alla chiusura dei rubinetti del 110% che, esauriti gli effetti sul disavanzo, fino al 2027 peserà, seppur in misura minore, proprio sul debito.

Se il debito va considerato non in termini nominali ma in rapporto al pil, per migliorare lo stato di salute dei conti pubblici occorre, da un lato, contenere il numeratore e, dall’altro, alimentare il denominatore, ovvero la crescita.

Sotto il primo aspetto, il governo è al lavoro su due ulteriori fronti. Il primo è l’incentivazione all’acquisto di titoli di Stato da parte delle famiglie italiane, cui è dedicato il nuovo Btp Più appena annunciato dal Mef. Posto che, archiviata la parentesi Pepp, l’aiuto più grande per il collocamento di emissioni andrà cercato tra gli investitori istituzionali. Il secondo è l’accelerazione sul processo di dismissione degli immobili pubblici, come confermato a Class CNBC dallo stesso Giorgetti, che ha sposato la storica campagna sul Tagliadebito portata avanti da questa casa editrice: «Siamo in fase di censimento, stiamo procedendo con la ricognizione».

La spinta per la crescita

Lato pil, invece, occorre aumentare gli investimenti produttivi indirizzandoli, man mano che la fase recessiva si allontana, verso quei settori in grado di fornire maggiori stimoli alla crescita. Perché la programmazione di bilancio risulti efficace, inoltre, accanto al piano di investimenti occorrerà delineare un piano di spesa corrente, così da scongiurare sprechi di risorse e opportunità. Tra le opportunità vanno incluse, ovviamente, le ingenti risorse di cui l’Italia beneficia dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tra un anno, tuttavia, le erogazioni finiranno: ecco perché bisogna, fin da oggi, pensare al dopo per evitare pericolose strozzature nel flusso degli investimenti. (riproduzione riservata)



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