Feyerabend, il conflitto tra due forme di vita

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«Il mio libro è rivolto a lettori diversi fra loro, perciò contiene molte cose diverse fra loro. Ci sono argomentazioni che fanno sentire a casa propria il razionalista, melodie in differenti tonalità per i lettori inclini al pathos, c’è della retorica per coloro che apprezzano un dibattito senza esclusioni di colpi, e ci sono anche osservazioni personali». Questo è quanto scrisse Paul K Feyerabend in The British Journal for the Philosophy of Science in «difesa» della ricchezza inclassificabile del suo eretico Contro il metodo. Le stesse parole sono, però, anche la miglior descrizione che l’epistemologo austriaco avrebbe potuto utilizzare per la raccolta di saggi pubblicata da elèuthera con il titolo Conoscenza e libertà. Scritti anarco-dadaisti (cura e introduzione di Matteo Collodel e Luca Guzzardi, pp. 268, euro 20).

QUESTI OTTO TESTI pubblicati originariamente tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, pur variabili nella forma, sono «monolitici» nel contenuto e ci restituiscono tutti i grandi temi affrontati da Feyerabend durante la sua lunga e intensa attività intellettuale.
Innanzitutto, nonostante la moderna religione della scienza affermi il contrario, non esiste un solo e unico metodo scientifico (universale, disinteressato e astorico) e, comunque, anche se esistesse, non sarebbe necessariamente superiore e da preferire – a priori, sempre, ovunque e in qualunque situazione – ad altri approcci sviluppati per provare a comprendere e a modificare il mondo. Questa visione della scienza – Feyerabend lo ribadisce a più riprese – è antidemocratica e colonialista. In breve, nell’impresa scientifica «non c’è metodo e non c’è autorità» e la scienza non «è una struttura neutra, il cui contenuto è una conoscenza positiva, indipendente dalla cultura, dall’ideologia e dal pregiudizio», se non addirittura da interessi più o meno inconfessabili e sempre tenuti nascosti dietro lo schermo della neutralità e della naturalità.

LA PROPOSTA di Feyerabend è, pertanto, quella di un «anarchismo epistemologico», che «si oppone apertamente» alle «norme universali, leggi universali, idee universali» e che afferma che «la scienza al suo meglio richiede tutti i talenti dell’essere umano». In altri termini, una volta mostrato che in tutti i maggiori successi scientifici (da Galileo a Einstein e oltre) è stato determinante «l’aiuto di elementi non scientifici», va accettato lo slogan più noto dell’epistemologo anarco-dadaista: «in pratica, l’unico principio costantemente rispettato sembra: tutto va bene».

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Dal che discende che la società dovrebbe democraticamente «giudicare la ragione, anziché farvi affidamento per giudicare tutto il resto», spezzando così «l’alleanza profana tra scienza, razionalismo (e capitalismo)» e ridimensionando il ruolo assegnato agli esperti e al «gergo del laboratorio», «il linguaggio di chi maltratta abitualmente ratti, topi, cani, conigli e prende accuratamente nota degli effetti del maltrattamento». Il linguaggio, insomma, di chi pensa di poter separare, con gesto sovrano o biopolitico, la scienza dal resto della vita. Al contrario, in una società realmente democratica «saranno i profani a prendere le decisioni quando si tratta di applicare la scienza alla società», «anche se ciò dovesse ridurre il tasso di successo delle decisioni prese». La scienza non è qualcosa che viene scoperto da un osservatore esterno, incorporeo e divino, ma una costruzione sociale che si realizza nel suo farsi entro uno «scambio partecipativo».
«La regolarità del nostro mondo non ne costituisce un tratto fondamentale ma è il risultato di un conflitto».

UN CONFLITTO tra due «forme di vita»: una che «trae vantaggio dal legame dell’uomo con la natura e con il suo prossimo» e l’altra, «escogitata dai giocatori del pensiero, estranea «al mondo, alla natura e all’uomo» e fondata su una definizione asfittica e riduzionistica della ragione, totalmente sganciata dall’esperienza del vivere in relazione. È la seconda forma di vita quella oggi dominante perché «la partita è stata truccata a suo favore»: tutti, almeno sulla carta, possono parlare ma solo, e solo se, usano l’idioma egemone della ragione strumentale, strumentalizzante e strumentalizzata.



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