La pensione non è una variabile indipendente

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Per questa ragione alimentano un po’ di sconforto certe reazioni di sindacalisti, politici e commentatori di fronte a quello che potremmo definire un «falso allarme» degli scorsi giorni. L’Inps, in alcune simulazioni online destinate agli utenti, aveva adeguato i criteri pensionistici a un’aspettativa di vita in aumento, innalzando a 67 anni e tre mesi l’età di pensione dal 2027. Lo ha fatto in maniera maldestra, non c’è dubbio, all’oscuro dei propri stessi vertici, e peraltro senza che l’adeguamento all’aspettativa di vita fosse formalizzato dal Governo: da qui le scuse e la marcia indietro dell’Istituto. Tuttavia alcune risposte dovrebbero allarmare più dell’episodio in sé. Di fronte a una simulazione online non corretta, per esempio, c’è chi ha immediatamente annunciato urbi et orbi un «peggioramento del quadro previdenziale». Oppure chi ha dichiarato di voler bloccare per decreto e a tempo indefinito ogni meccanismo di adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Come se la pensione, per parafrasare uno slogan degli anni Sessanta del secolo scorso, fosse «una variabile indipendente», una prestazione che in fondo non deve derivare dalla quantità di contributi che la finanziano, dall’età anagrafica del lavoratore o dagli anni di vita media dei pensionati, o come se la pensione fosse totalmente slegata dalla sostenibilità dei conti pubblici di un Paese.

Come se la pensione, per parafrasare uno slogan degli anni Sessanta del secolo scorso, fosse «una variabile indipendente», una prestazione che in fondo non deve derivare dalla quantità di contributi che la finanziano, dall’età anagrafica del lavoratore o dagli anni di vita media dei pensionati

I pensionati aumentano

A riportarci con i piedi per terra aiutano dati e riflessioni proposti alla Camera dei deputati durante la presentazione del «Bilancio del sistema previdenziale italiano» curato da Itinerari Previdenziali. Qualsiasi discussione seria in materia, infatti, non può che partire da due numeri. Il primo è quello dei pensionati: in Italia aumentano, sono saliti da 16,131 milioni nel 2022 a 16,230 milioni nel 2023, quasi centomila in un solo anno. In un sistema a ripartizione come il nostro, in cui i contributi versati dai lavoratori attivi sono subito utilizzati per pagare le pensioni di chi è già in pensione, l’altro numero da osservare è dunque il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati. È da qui che passa la sostenibilità del «patto tra generazioni» alla base della previdenza. Questo numero nel nostro Paese si è attestato a 1,4636, ancora al di sotto del rapporto di 1,5 lavoratori attivi per ogni pensionato che gli esperti giudicano «la soglia della semi-sicurezza», ma comunque il miglior dato di sempre nella serie storica ricostruita dal Rapporto.

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Il rapporto con i lavoratori attivi

Le notizie positive sono ovviamente due. Da una parte sono sempre più numerose le persone che vivono più a lungo in Italia, dall’altra evidentemente è cresciuto di pari passo il numero di lavoratori. Non a caso il numero degli occupati ha superato di recente la soglia record di 24 milioni. «Malgrado i “catastrofisti” che parlano di un sistema insostenibile all’interno dell’attuale quadro demografico, i conti della nostra previdenza reggono, e dovrebbero farlo anche tra 10-15 anni, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980 si sarà pensionata» ha affermato Alberto Brambilla, il presidente di Itinerari Previdenziali.

Un equilibrio faticoso

Dunque va tutto bene? Non esattamente. Proprio i dati qui sintetizzati descrivono un equilibrio conquistato a fatica, frutto di riforme radicali e soprattutto dei sacrifici di milioni di lavoratori. Un equilibrio fragile sul quale grava soprattutto lo scompenso demografico crescente che amplia la platea dei pensionati e assottiglia quella dei lavoratori. Per questa ragione, invece di riposare sugli allori, sarebbe saggio guardare agli ampi margini di miglioramento che abbiamo. Una priorità è quella di accrescere il tasso di occupazione. I lavoratori negli ultimi due anni sono aumentati, infatti, ma «con solo poco più di 24 milioni di lavoratori su una popolazione in età da lavoro di circa 38 milioni di individui – si legge nel Rapporto – l’Italia resta però tra le nazioni peggiori in Europa» se misurata in base al tasso di occupazione appunto. Un maggiore coinvolgimento delle donne e dei giovani nel mercato del lavoro si può perseguire con tanti strumenti.

L’altra priorità è quella di non annacquare le regole pensionistiche che si sono andate ormai consolidando lo scorso decennio. Basta dunque inondare le campagne elettorali e i confronti televisivi di possibili eccezioni o uscite anticipate di ogni sorta, che sono solo i parenti poveri delle «baby pensioni» che tanti danni hanno già fatto in passato. Il Governo Meloni e il ministro dell’Economia Giorgetti, con le loro tre prime leggi di bilancio, non hanno ceduto a queste sirene, anche se ieri il responsabile di Via XX Settembre ha aperto all’ipotesi di «sterilizzare» gli aumenti dei requisiti per andare in pensione legati all’invecchiamento. Al canto insidioso delle sirene, meglio replicare con parole di verità e realtà, senza saltare dalla sedia alla prima simulazione del futuro che ci aspetta.



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