Iran, Pakhshan Azizi condannata a morte a Evin, il fratello Asso: «Le hanno messo un cappio intorno al collo, fingono di impiccarla, vogliono che confessi falsità»

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di
Greta Privitera

Da Bruxelles l’appello all’Italia: «Fermare questa ingiustizia, non c’è più tempo. L’hanno arrestata nell’estate del 2023 e ha passato quattro mesi in isolamento. Serve una mobilitazione internazionale»

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Adesso che la condanna a morte è stata confermata, Pakhshan Azizi può sentire la sua famiglia. Sei giorni fa, dal carcere di Evin, a Teheran, ha telefonato alla madre e al padre che vivono a Rasht, sul Mar Caspio. Non sapeva come dirglielo, ma sapeva che i minuti per farlo erano pochi. La chiamata la racconta al Corriere il fratello Asso, fuggito a Bruxelles: «Come state? Bene? Siete sicuri? Come è andata la visita dal dottore? E il cuore di papà?». La salute dei suoi amati genitori è una priorità per Pakhshan: «Lei è fatta così, pensa sempre prima agli altri», dice Asso. E continua: «Poi, ha trovato il coraggio: “Vi devo dire una cosa, il tribunale ha confermato. Sarò giustiziata». Prima di andare avanti: in curdo, Pakhshan vuol dire «poesia».

Qual è l’accusa?
«Ribellione armata contro la Repubblica islamica e appartenenza a gruppi di opposizione (l’accusano di far parte del Partito curdo Pjak, ndr.). Nella sua vita, mia sorella ha svolto solo attività pacifiche. Veniamo dal Kurdistan. È un’operatrice umanitaria che ha lavorato nei reparti oncologici degli ospedali e dal 2014 come volontaria nel campi profughi del Kurdistan iracheno per aiutare le donne e i bambini che scappavano dall’Isis. Non ha fatto nulla che giustifichi questa terribile sentenza e non dovrebbe nemmeno stare in carcere».




















































Ci racconti come è andato l’arresto.
«Il 4 agosto 2023 Pakhshan è stata arrestata a Teheran con mio padre, mia sorella, mio cognato e mio nipote. Da qualche mese era nato il movimento Donna, Vita, Libertà. Dall’Iraq, era tornata in Iran per visitare la nostra famiglia ed è stata presa dai Guardiani della rivoluzione. Li hanno tenuti per 15 giorni in isolamento, torturandoli. Volevano che confessassero che Pakhshan era in possesso di armi e che con la sua attività politica spingeva alla rivoluzione. Poi hanno liberato tutti tranne lei».

Dove l’hanno portata?
«Nel carcere di Evin. Ha passato quattro mesi e una settimana in isolamento. Non poteva sentire né vedere nessuno, nemmeno un avvocato. L’hanno interrogata allo sfinimento, cercando di costringerla a confessare falsità. L’hanno torturata, naturalmente».

Come?
«Oltre che con i loro soliti modi – luce accesa 24 ore su 24, insulti sessisti, lasciandola al freddo, costringendola a mangiare carne anche se lei è vegetariana – una volta hanno finto di impiccarla».

Cioè?
«L’hanno costretta a salire su una pedana e le hanno messo un cappio intorno al collo. Volevano e vogliono che confessi cose che non ha fatto. Ma Pakhshan è una donna forte, uno “spirito integro” e non si è mai piegata alle loro richieste. Durante un interrogatorio uno di loro le ha detto “aprirò un altro fascicolo contro di te e sarai costretta a metterti in ginocchio e chiedermi pietà”. Ed ecco il nuovo fascicolo. Ed ecco la pena di morte».

Le è stato fatto un processo?
«Sì, uno dei loro processi-farsa. La magistratura in Iran non è indipendente. Lei si è presentata davanti al giudice senza velo e ha negato tutte le accuse. Prima le avevano dato sette anni di carcere poi hanno trasformato la pena. Mia sorella paga anche il fatto di essere curda, se sei una donna e fai parte di una minoranza etnica, per la Repubblica islamica diventi un bersaglio perfetto. Al telefono, ai miei genitori, ha raccontato dell’amicizia con le altre detenute che hanno protestato contro la sua condanna. Non sentirsi sola è importante per lei, per sopravvivere alle brutalità dei guardiani».

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È nella stessa sezione della Premio Nobel per la pace Narges Mohammadi?
«Sì, nella sezione 209, dove si trovano molte prigioniere politiche. Negli scorsi giorni, Mohammadi ha parlato di lei. Ricordiamo anche la storia di Sharifeh Mohammadi, una sindacalista».

Che cosa chiede alla comunità internazionale?
«Di farsi sentire per salvare mia sorella. Sta per essere condannata una donna innocente, bisogna fare qualcosa al più presto. Ho visto che l’Italia è riuscita scarcerare la giornalista Cecilia Sala, chiedo al governo di Giorgia Meloni di opporsi alla condanna a morte di Pakhshan Azizi. Non c’è più tempo».

Chi è sua sorella?
«È una giovane donna piena di energia. Ha studiato all’università di Teheran per diventare operatrice umanitaria, aiutare gli altri è la sua vocazione. È un’attivista che crede nei diritti umani e vuole vivere in un Paese dove le donne non sono considerate cittadine di seconda classe e porta avanti i suoi ideali in modo pacifico. È forte, ma anche molto sensibile e dolce. Il suo nome significa poesia e non a caso adora scrivere. Ha fatto la giornalista per una rivista della nostra città, e adora leggere e comporre poesie. È la nostra poetessa».

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15 gennaio 2025 ( modifica il 15 gennaio 2025 | 17:17)

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