«Hamas fa marcia indietro». E rinvia il voto sulla tregua

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Dopo l’esultanza, il realismo. All’indomani dell’annuncio dell’accordo fra Israele e Hamas per la tregua nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi, nuove nubi si profilano all’orizzonte. Non sono solo i fumi dei bombardamenti, che nella notte avrebbero causato 73 vittime (tra cui 20 minori e 25 donne), stando a fonti sanitarie locali, in attesa dell’entrata in vigore del cessate il fuoco domenica a mezzogiorno. A minacciare la tregua sono i fumi dell’ira che si levano dall’estrema destra israeliana dei partiti Potere ebraico e Sionismo religioso, guidati rispettivamente dai ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Insieme contano 13 deputati indispensabili a tenere in piedi il governo guidato da Benjamin Netanyahu, che si regge su 68 seggi (8 in più della maggioranza assoluta). Ferocemente contrari a ogni intesa, e sostenitori della necessità di tornare a colonizzare la Striscia, entrambi voteranno contro la ratifica dell’accordo di Doha e si sono dichiarati pronti a dimettersi se verrà approvato.

Ora il premier è fra l’incudine e il martello dei suoi alleati: da un lato il presidente americano eletto, Donald Trump, che è già passato all’incasso rivendicando l’intesa come il primissimo successo dalla sua Amministrazione che lunedì andrà a insediarsi; dall’altro la destra messianica radicale dei coloni che lo mantiene al potere, dov’è stato per 13 degli ultimi 15 anni.

Come sempre in questi casi, la via d’uscita è Hamas. Recitando il noto mantra, l’ufficio di Netanyahu scrive: «Hamas sta rinnegando le intese e creando una crisi dell’ultimo minuto che sta impedendo l’accordo». Per questo motivo «il gabinetto israeliano non si riunirà fino a quando i mediatori non avranno notificato a Israele che Hamas ha accettato tutti gli elementi dell’intesa». Un membro dell’ufficio politico di Hamas, Izzat al-Rashak, ha replicato che «Hamas è impegnata a rispettare l’accordo».

Non che manchino i punti di frizione, o che gli appigli siano improponibili. Nella fretta di annunciarlo al mondo entro la scadenza imposta da Trump – il suo giuramento del 20 gennaio alla Casa Bianca -, l’accordo è stato limato solo fino a un certo punto. Rinviando a tempi successivi, a partire dal sedicesimo giorno dall’entrata in vigore, la negoziazione su dettagli essenziali. Tempi e modi del ritiro delle truppe, ad esempio. Che poi significa la garanzia che Israele sia in grado di continuare a proteggersi da minacce provenienti da Gaza. Già nelle ore immediatamente precedenti lo storico annuncio, l’ufficio di Netanyahu aveva denunciato il tentativo da parte di Hamas di inserire nell’accordo la smobilitazione delle truppe dal Corridoio Filadelfia, che separa Gaza dall’Egitto e il cui controllo, sostiene Tel Aviv, è l’unica garanzia per scongiurare l’ingresso di armi nell’enclave. «Contrariamente a resoconti fuorvianti, Israele non si ritirerà dal Corridoio Filadelfia – ha dichiarato l’ufficio del premier -. Israele rimarrà nella Fase A del corridoio per l’intero periodo di 42 giorni», ovvero nella prima delle tre fasi dell’attuazione del piano.

Un altro punto di frizione è costituito dalla lista dei palestinesi che uscirebbero dalle prigioni israeliane: ufficialmente non si fanno nomi, ma è noto il veto di Israele su alcuni detenuti “di peso” sui quali insiste la leadership di Hamas. Primo fra tutti quel Marwan Barghuti che in Cisgiordania è acclamato come il leader in pectore della Palestina.

Dopo l’annuncio di Netanyahu che «Hamas ritratta le sue intese», il Forum delle famiglie degli ostaggi ha dichiarato che «né Hamas né Ben-Gvir, ma Benjamin Netanyahu sarà responsabile di qualsiasi ulteriore ostacolo al ritorno degli ostaggi». Per il Forum «l’accordo deve essere avviato immediatamente in tutte le sue fasi». Va ricordato che esiste un’altra associazione di parenti dei rapiti che invece sostiene la guerra a oltranza ad Hamas come l’unica strada efficace per impedire il ripetersi del 7 ottobre e che dunque si oppone a ogni accordo.

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