«Manca tutto. Non c’è più nulla, solo macerie. E tende lacere. Prima del 7 ottobre Rafah, nel Sud della striscia di Gaza (a 30 km dal confine con l’Egitto), era una cittadina di 250mila abitanti, ora si fatica a contarli. Si parla di 1 milione e 500mila sfollati che abitano in tende o baracche. I bambini, tantissimi, girano scalzi, sporchi con abiti laceri e logori. Spesso portano taniche per andare a prender l’acqua nei punti sovraffollati di gente in coda. Spesso battono le mani sulla nostra auto in cerca di qualcosa, cibo, un saluto, forse anche solo un piccolo gesto di umanità. Il rumore di spari e bombe è continuo, giorno e notte. E anche spostarsi in auto per pochi chilometri per arrivare all’ospedale era (ed è ancora di più ora) un’impresa difficile e pericolosa». È la testimonianza di Davide Musardo, 43 anni, responsabile della salute mentale di Medici Senza Frontiere in Medio Oriente. Le immagini di Gaza le vediamo in tv ormai da mesi come pure gli articoli li leggiamo sui giornali e sui social ogni giorno, ma ascoltare il racconto di Davide, psicoterapeuta, fa un altro effetto. «Fin da quando studiavo all’università avevo deciso che sarei andato a lavorare con un’organizzazione umanitaria – racconta – Una volta laureato in psicologia clinica sono partito e da 10 anni lavoro in Paesi mediorientali. Una delle prime missioni è stata la Cisgiordania nei territori palestinesi occupati, poi Yemen, Siria, e anche Sud Sudan in una piccola cittadina al nord, Malakal («dovevo andare in Etiopia ma l’uccisione di tre colleghi Msf in Tigray in quei giorni ha reso impossibile il nostro arrivo perché il territorio era considerato pericoloso») e durante il periodo del Covid in Iraq a Baghdad».
A Gaza Musardo era già stato più volte prima della guerra, ed era lì lo scorso maggio quando l’esercito israeliano ha invaso la città. «Ero in servizio da aprile e dovevo starci sei settimane, come è previsto dai nostri protocolli di mobilità e turn over. Con l’arrivo dei militari israeliani siamo rimasti chiusi dentro. Non abbiamo potuto più muoverci: l’esercito ci ha impedito di lasciare il Paese e abbiamo dovuto, come altre organizzazioni, chiedere aiuto alle Nazioni Unite. Quando ti sposti in queste situazioni ogni giorno devi comunicare alle autorità la tua posizione e quella da raggiungere. Noi partivamo tutte le mattine dalla nostra casa per raggiungere l’ospedale di Rafah dove operiamo, le altre cliniche del Paese le avevamo chiuse erano troppo pericolose: quei 3 km su quelle strade bombardate e piene di macerie sono difficili e pericolosi, anche perché noi non ci muoviamo su auto blindate. Aggiungo anche che chiamarla casa mi sembra eccessivo: era una grande stanza che avevamo diviso in due con una tenda, una parte era adibita a cucina, l’altra lasciata alle donne garantire un po’ di privacy. Avevamo, comunque, la fortuna di avere accesso a una doccia seppure con acqua salata. Ma quel piccolo locale era già tantissimo se penso alla tendopoli dove vivono i palestinesi».
Nell’ospedale dove Musardo e gli altri operatori di Msf operano il primo soccorso è sempre medicale. Lesioni da arma da fuoco, lacerazioni, ustioni, arti colpiti. «Ma queste persone hanno ferite più profonde. La quasi totalità dei nostri pazienti ha bisogno proprio di supporto psicologico, sono ferite invisibili molto difficili da curare. Bisogna avvicinarci, parlare e ascoltare le loro terribili storie. Ricordo un giorno appena entrato in ospedale che vidi e sentii una bambina che urlava a squarciagola, era completamente in preda un panico. Era sola, piccola. Le sue grida erano talmente forti da coprire il suono dei droni e delle esplosioni. E quella bimba era una tra tanti, tanti piccoli che più volte mi hanno detto: voglio morire».
«Ogni mattina nel mio giro per l’ospedale – ci muoviamo sempre con gli operatori culturali al nostro fianco anche per motivi linguistici – raccolgo le storie delle persone, le ascolto e cerco soprattutto di aiutare i bambini attraverso il gioco con cui tentiamo di creare un ponte e di fare esprimere loro il dolore, perché spesso vivono come in una bolla e nessuno ha il coraggio di dire loro che i genitori sono morti. Giocando con loro riusciamo a costruire uno spazio sicuro e affidabile in cui poter dare risposte alle loro domande e capire chi può, poi, farsene carico nella comunità: qualcuno della famiglia ancora vivo, un parente, un amico, un vicino di casa».
Ma anche il gioco può essere terribile. Come quello per una bimba su un letto un giorno che piangeva inconsolabile. «Eravamo riusciti a far arrivare in ospedale dei doni con dentro giocattoli. C’era una bambina che piangeva: aveva entrambe le mani fasciate per bruciature e non riusciva ad aprire il pacchetto. Non ci eravamo accorti di lei: l’ospedale è sempre sovraffollato di gente ferita in cerca di aiuto, eppure quella era una priorità. Ci siamo avvicinati e l’abbiamo aiutata scartando il regalo per lei: dentro c’era un peluche glielo abbiamo messo tra le braccia. L’abbiamo fatta giocare con delle bolle di sapone e le abbiamo offerto del cioccolato. Ricordo che quella sera ho riunito il mio staff e ho chiesto a tutti più attenzione ai particolari».
«I palestinesi vivono nella condizione eterna in cui l’oggi e pericoloso e il domani non esiste. Non sanno neppure se riusciranno a passare la notte, le loro case sono tende precarie, sporcizia, caldo e freddo. Magari sono già sfollati e scappati più volte da altre città. Ci chiedono di parlare, ne hanno bisogno. Ci dicono: come posso io raccontare la mia storia a un altro palestinese che magari ha il mio stesso vissuto o anche peggio? Tutti hanno bisogno di parlare».
«La casa non esiste più, magari sono morte tutte le persone della famiglia. Se ti va bene hai una tenda e il quotidiano problema di cercare un po’ di cibo che comprano ai piccoli mercati improvvisati sulle strade che spesso si riducano a qualche lattina di pomodori, fagioli e farina. Non c’è lavoro e non ci sono più scuole, i bambini non ci vanno da oltre un anno. Qualcuno me lo racconta con immensa tristezza spiegandomi che non ha più la forza di sedersi con i figli per fare qualcosa simile ai compiti. Come quel papà che un giorno ho trovato in ospedale: aveva perso tutti e l’unico figlio sopravvissuto aveva attraversato il confine ed era stato mandato in Egitto per cure mediche urgenti. Lui vagava in ospedale senza una meta. Perché è qui? gli chiesi. Non so dove andare, non ho più nulla, mi rispose. Qui mi rimane almeno il ricordo di aver visto mio figlio per l’ultima volta».
Mi domandi se avevo paura? Eccome se ne avevo, tanta. Ricordo una notte che ci siamo svegliati col suono di un missile, un’esplosione così vicina. Siamo usciti in strada terrorizzati per capire cosa fosse successo e come avremmo potuto aiutare a recuperare la gente ancora viva tra le macerie. Temevamo anche che avessero colpito la nostra piccola farmacia da campo che avevamo in una tenda appena fuori casa. Ma è come se io avessi meno diritto di avere paura rispetto a loro, perché io potevo lasciare Rafah mentre loro restano lì. E quando te ne vai ti porti a casa l’immagine di quei visi, di quegli sguardi che ti penetrano. E ti chiedi cosa ne sarà di loro. Sono una popolazione devastata, non solo fisicamente ma psicologicamente. Vivono in un incubo ma sono perfettamente svegli. Un giorno – ero tornato ad Amman dove lavoro ma ero rimasto in contatto con molti lì – ho saputo che un amico, un operatore di MSF che si occupava di logistica in ospedale, era stato ucciso insieme a tutta la sua famiglia. Mi fecero vedere cosa restava di lui, la foto circolava su Internet: una pettorina di MSF sporca tra le macerie. E di lui che era sempre sorridente e che usciva dall’ospedale ogni giorno sapendo che lo aspettava il suo secondo lavoro – cercare del cibo per la sua famiglia – mi è rimasta quell’immagine. E un grande perché tutto questo?»
Oggi Musardo si trova ad Amman in Giordania, un ospedale grandissimo dove lavorano 190 operatori; è la sua base operativa scelta dall’organizzazione perché è più facile spostarsi verso la Siria, lo Yemen, la Palestina. «Le cure mentali, però, sono più appannaggio delle donne, gli uomini sono ancora molto diffidenti e faticano ad aprirsi, ma una volta abbattuti i muri riconoscono l’importanza di questi percorsi. Qui, comunque, curiamo tutti, indipendentemente dalla religione e dall’etnia, molti sono siriani».
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