Qual è il confine, anche netto, che separa la violenza legale da quella illegale? Quali sono le ripercussioni sull’essere umano di un lavoro in cui il disumano è praticamente materiale ordinario, se non proprio quotidiano? Ma soprattutto, cosa distingue una lotta retribuita da una ideologica o sregolata? Disponibile solo su Netflix dal 15 gennaio 2025, ACAB, la nuova serie TV in 6 episodi prodotta da Cattleya e tratta dall’omonimo romanzo firmato da Carlo Bonini, cerca di proiettare tutte queste questioni all’interno dei suoi protagonisti e delle loro battaglie personali e lavorative. Dalle ombre di un lavoro che si nutre sia della legge sia dei reflussi del mondo urbano più primordiale, emerge un viaggio nel conflitto interiore e personale in cui la violenza si fa mezzo di espressione, ma anche gioco di sguardi e parole.
Con un cast di tutto rispetto, che coinvolge nuovamente Marco Giallini nel ruolo che aveva interpretato sul grande schermo nel film omonimo, affiancato da Adriano Giannini, Valentina Bellè, Pierluigi Gigante e Fabrizio Nardi, ACAB si mostra sotto una luce nuova, portando alcune trasformazioni nel tessuto socio-lavorativo che analizza, per poi plasmarne l’essenza attraverso la regia di Michele Alhaique e la scrittura di Filippo Gravino, Carlo Bonini, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini. Non è sicuramente un argomento semplice quello al centro di ACAB, che apre fin da subito la strada a una serie di riflessioni che rompono il piccolo schermo, relazionandosi con il reale e con lo sconosciuto, per poi asciugare il passo con uno stile che indaga e analizza fin dove la storia glielo consente (già che ci siete non perdete le serie su Netflix di gennaio 2025).
Scontri armati fuori e dentro
Durante alcuni tumulti in Val di Susa, una squadra del Reparto Mobile di Roma interviene a supporto di una situazione che sta per esplodere da un momento all’altro. Unita da un rapporto lavorativo che va ben oltre il rispetto reciproco, la squadra di Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè), Salvatore (Pierluigi Gigante) e gli altri è stata forgiata dalla violenza quotidiana della città di Roma, sviluppando un legame quasi familiare per certi versi. Quando una bomba carta ferisce a tradimento il caposquadra, scatta qualcosa in loro, una molla interiore, una reazione che li spingerà, sul momento, a prendere alcune decisioni difficili da gestire per chiunque.
In un momento di crisi personale, quindi, i protagonisti di ACAB si ritrovano a fare i conti con le proprie scelte e con un particolare distacco emotivo sviluppatosi giorno dopo giorno lungo le strade su cui lavorano da sempre. Tutto cambia, o sembra farlo, però, con l’arrivo di un nuovo comandante, Michele (Adriano Giannini), che ha una visione di questo mestiere del tutto differente dalla loro. Un’indagine interna, la gestione della violenza lungo le strade e la risposta mentale ad alcune circostanze sempre al limite sono alcuni degli elementi fondamentali della serie TV su Netflix.
Ripercussioni e coscienza di sé
Partendo da un terreno piuttosto delicato da approfondire e affrontare, ACAB mette innanzitutto i personaggi al centro del proprio racconto seriale. Sono loro il perno principale a smuovere tutti gli eventi in corso, sfaccettandone le caratteristiche in un gioco che tende a distanziare, almeno all’inizio, per poi scavare. Nell’alternanza fra analisi distaccata e approfondita si muovono i passi di un viaggio che non si tira mai indietro quando si tratta di demoni, problematiche varie e soprattutto conflitti (che siano armati e tangibili o interiori). Questi rappresentano un altro elemento chiave della serie Netflix, che mette al centro della narrazione una particolare sensibilità nell’entrare nella vita di queste persone e in ciò che assorbono quotidianamente.
Il mestiere del “celerino” necessita di una compostezza morale, fisica e mentale fondamentale al fine di portare a compimento i propri incarichi anche nei momenti più stressanti. Il continuo contatto con la violenza e la rabbia, però, ha inevitabilmente delle conseguenze dirette, e proprio in ciò si sviluppano le riflessioni principali di ACAB. La professionalità assoluta, in un lavoro del genere, si muove sempre in parallelo con un equilibrio personale sicuramente difficile da gestire. Quali sono, quindi, le ripercussioni sull’essere umano sotto la divisa e il caschetto, e dietro lo scudo antisommossa?
L’impatto di un contesto del genere si lega alla risposta dell’umano a una serie di situazioni in cui è più facile che mai perdere la testa. Così ACAB torna ai personaggi e su di loro intesse una storia di segreti e violenza, ma anche di rabbia recondita e sottocutanea. Non soltanto manganelli e lacrimogeni, ma anche questioni e tormenti interiori, problematiche al di là di quella divisa che dovrebbe oscurare ogni dialettica emotiva, trasformando l’umano in strumento a servizio del sistema. La situazione non è mai così semplice, però, e il pretesto sentimentale di una situazione difficile consente alla serie di aprirsi lungo più strade, mettendo in luce le ipocrisie e le fragilità di un gruppo di persone tutte condizionate da specifiche battaglie cui far fronte.
Un mestiere del genere, poi, si snoda all’interno di un settore lavorativo senza dubbio affascinante, ma notoriamente chiuso, sigillato da alcune regole che vorrebbero probabilmente cancellare l’indecifrabile intimo dei propri dipendenti. Muoversi in questo intreccio, in ACAB, restituisce costantemente un senso di claustrofobia e di distanza impossibili da ignorare. In ciò s’inserisce la regia di Michele Alhaique, anch’essa impegnata a trovare un equilibrio convincente e coerente fra le sequenze più ritmate e violente e quella particolare indagine interiore e mentale, centrale anche nella costruzione di alcune specifiche inquadrature. Pure nelle immagini, quindi, l’intimismo della ricerca e la voglia di andare oltre ciò che si vede si muovono su un terreno complesso e sfaccettato, ma anche ordinato a livello di inquadrature.
ACAB è una serie tv che funziona e attrae nel suo insieme, giocandosi gran parte delle sue carte nello studio umano delle maschere, da scoprire a mano a mano, e nel “mondo sociale” che abitano. In tutto ciò il conflitto resta la costante, sia nel presentare la vita di questi esseri umani in cui la violenza è qualcosa con cui fare i conti quotidianamente, sia nel cercare di andare oltre le loro barriere e convinzioni più manifeste. Nel farlo il racconto seriale offre alcuni spunti interessanti, giocando con ciò che si conosce e l’inedito di un lavoro distante dalla vita civile più classica.
Il gioco dei ruoli e delle scelte va sempre più in profondità col progredire degli episodi, applicando un’ulteriore lente analitica sulle conseguenze che sfociano nella morale soggettiva e nel punto di vista, sia narrativo che della macchina da presa. Così ci si ritrova impelagati nello stesso nero soffocante che schiaccia ogni inquadratura di ACAB, respirando tutta l’amarezza che, nel vivere di queste persone, diventa una costante, cambiando continuamente la prospettiva degli accadimenti in corso. Nulla è scontato in questa serie TV, anche se è facile scorgere nella scrittura alcuni stereotipi ed esagerazioni che vengono però cancellati da ulteriori riflessioni che coinvolgono l’ambito sociale contemporaneo, ma anche quello razziale e più perimetrale, in un puzzle di rimandi in cui nulla resta mai fermo.
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