Il procuratore Sandro Raimondi e la pm Patrizia Foiera hanno acquisito la documentazione e i fascicoli delle Procure che nel tempo hanno indagato sul caso Pantani
«Se Pantani vinceva il Giro avrebbe buttato in mezzo alla via tutti quelli che gestivano le scommesse». Era stato l’ex capo clan camorristico di Mondragone, poi diventato collaboratore giustizia, il primo a gettare l’ombra della criminalità organizzata sul Giro d’Italia e quel controllo antidoping a Madonna di Campiglio del 5 giugno del 1999 che ha segnato l’inizio del declino del campione di ciclismo. «Il Pirata» era risultato positivo (esito contestato) e i tanti dubbi sul controllo, sollevati anche dalla famiglia del campione, alla luce delle dichiarazioni dell’ex capo clan hanno ancora più significato.
Dichiarazioni rese a suo tempo agli investigatori che indagavano sulla camorra sulle quali ora la Procura ha puntato i riflettori. Il procuratore Sandro Raimondi e la pm Patrizia Foiera, che hanno aperto un fascicolo «per associazione di stampo mafioso finalizzata alle scommesse clandestine e collegata al decesso del ciclista», hanno acquisito, come rende noto LaPresse, la documentazione e i fascicoli delle Procure che nel tempo hanno indagato sul caso Pantani e sono determinati a scoprire cosa è successo durante la tappa trentina.
Ascoltate dodici persone
Allora, il Pirata, a due tappe dal termine, era saldamente in testa alla classifica con sei minuti di vantaggio. Ma la mattina del 5 giugno di 26 anni fa i controlli anti-doping positivi avevano messo fuori gioco Pantani. Verifiche che si sospetta siano state «manipolate» dalla camorra.
Al momento non risultano indagati, ma la sostituta procuratrice ha già ascoltato dodici persone informate sui fatti e attraverso i nuovi documenti acquisiti vuole capire la verità sulla morte di Pantani sulla quale ancora oggi ci sono moltissimi dubbi, alimentati anche dalle dichiarazioni degli agenti della polizia scientifica che avevano raccontato «di essere stati tenuti fuori dalla stanza» D5 dell’hotel «Le Rose» a Rimini dove era stato trovato il corpo senza vita di Pantani. Era il 14 febbraio 2004. Ci sono tanti, troppi, aspetti poco chiari, tante domande sulla morte del campione che attendono una risposta. Ed è quanto intende fare la magistratura trentina.
«Sono dell’avviso che quando un ufficio giudiziario, come in questo caso la Procura di Trento, dimostra nei fatti di svolgere diligentemente e compiutamente la propria funzione e il proprio lavoro, la migliore forma di apprezzamento e condivisione sia un rispettoso silenzio», commentano gli avvocati Fiorenzo e Alberto Alessi che assistono i genitori di Pantani, Tonina e Paolo. Da anni la famiglia combatte per conoscere la verità. L’avvocato Alessi sottolinea la collaborazione con la Procura che ha aperto un’indagine grazie anche alle «nostre memorie difensive e istanze istruttorie».
La famiglia di Pantani
«La Procura di Trento è molto scrupolosa e ha ritenuto di recuperare gli atti formulando anche un’ipotesi», afferma il legale e ricorda che solo sulla morte di Pantani c’è un fascicolo di 5.000 pagine. La pm di Trento esaminerà anche quello. «La famiglia da anni sostiene quello che aveva detto lo stesso Pantani dopo la tappa di Madonna di Campiglio (“Mi hanno fregato”)», spiega il legale. L’indagine non potrà mai restituire il campione ai suoi genitori, ma per loro sapere la verità su quella tappa che aveva segnato per sempre la carriera del compianto campione di ciclismo da un punto di vista morale ha un grande valore. L’avvocato Alessi ricorda il lavoro delle altre Procure, quello che è stato fatto e quello si sarebbe dovuto fare prima, «sia dalla parte pubblica che privata», e infine aggiunge: «Credo che lavorare silenti, con scrupolo e attenzione, sia ancora un pregevole tratto distintivo della funzione del magistrato, soprattutto di quello inquirente».
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