La bassa produttività italiana può spiegare perché siamo più poveri

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Nuovo anno, vecchi problemi. In una fase storica che vede numeri decisamente positivi sul fronte occupazionale, sorprende come siano passati quasi del tutto inosservati i recenti dati negativi sulla produttività italiana. La circostanza colpisce non poco considerando che il calo del 2,5% calcolato dall’Istat nel corso del 2023 colloca il nostro Paese ampiamente sotto la media europea.

Probabilmente il tema appare troppo complesso per un dibattito pubblico come il nostro che si alimenta attorno a poche idee evocative, possibilmente divisive. Ma attraverso questo dato possiamo analizzare molte delle questioni che riguardano il presente e il futuro dell’Italia sociale a partire dalla valutazione degli stessi dati registrati rispetto a disoccupazione e occupazione.

I numeri sono chiari: nel 2023 le ore lavorate sono cresciute (+2,7%) di più rispetto al valore aggiunto (+0,2%) e ciò suggerisce uno sguardo diverso sulla qualità della crescita occupazionale che sta vivendo il mercato del lavoro italiano. Occupazione in larga parte a tempo indeterminato e full time ma che poco contribuisce alla creazione del valore aggiunto e quindi utilizzata in larga parte come sostituzione di investimenti (da tempo in calo) che paiono costare di più del lavoro. Tutto questo dovrebbe rimettere al centro del dibattito pubblico la questione salariale e la difficoltà manifestata dalla contrattazione collettiva nel recuperare una impennata inflazionistica inedita e, in parte, inattesa. Così come questi dati segnalano la difficoltà di molti settori dell’economia con una produzione industriale in calo ormai da due anni. È pertanto evidente l’urgenza di rimettere la produttività al centro dell’agenda politica e del confronto sindacale, perché appare davvero difficile immaginare una crescita salariale significativa in queste condizioni. In un momento storico caratterizzato da un clima non certo idilliaco tra le parti sociali il nodo della produttività dovrebbe riunire i principali attori del nostro sistema di relazione industriali attorno a un obiettivo comune.

I livelli sono molteplici. In primo luogo, occorre una politica industriale che cerchi di invertire questa spirale involutiva tra investimenti e salari. I ritardi nei decreti attuativi di Industria 5.0 non hanno certo aiutato, ma occorre lavorare per investimenti innovativi anche e soprattutto nei servizi, che scontano limiti dimensionali e tecnologici, ma nei quali si concentra la maggior parte degli occupati. C’è poi il tema centrale dell’organizzazione del lavoro, vero elemento che insieme agli investimenti può contribuire alla crescita della produttività del lavoro. L’Italia sconta ancora la grande diffusione di modelli organizzativi tardo-tayloristici che vedono del coinvolgimento attivo dei lavoratori e nella loro piena partecipazione ai processi decisionali, un ostacolo e non una risorsa. Dimenticando che oggi la conoscenza necessaria per l’innovazione è sempre più orizzontale e meno verticale all’interno delle aziende e che, quindi, ogni modello verticistico rischia di tradursi in una dispersione di idee, progetti e miglioramenti. In ultimo c’è il nodo della formazione e della riqualificazione delle persone per accompagnare i processi di innovazione che sconta grandi differenze dimensionali e settoriali.

In questo scenario le parti sociali e il governo dovrebbero interrogarsi seriamente, ad esempio, in merito alle ingenti risorse investite per la detassazione dei premi di produttività e a come far sì che non vengano disperse, come i dati sembrano almeno in parte suggerire. Una recente ricerca Adapt su un campione di oltre mille contratti aziendali e decentrati segnala come la contrattazione di produttività proceda stancamente, con formule che poco incidono sulla organizzazione del lavoro e la professionalità dei lavoratori. Sorprende, al riguardo, come le istituzioni pubbliche non siano ancora in grado, dopo un decennio, di avviare un monitoraggio sistematico di questa contrattazione. L’impressione che emerge dalla lettura di questi testi contrattuali è che la leva fiscale non funzioni e non induca gli attori contrattuali verso comportamenti virtuosi. Un po’ come avviene rispetto alle risorse per l’apprendistato, il primo canale di cui disponiamo per dotare il sistema produttivo di competenze e professionalità.

Occorrono idee nuove, capaci di fare i conti con il particolare tessuto produttivo italiano, che è fatto di piccole e piccolissime imprese, superando alcuni tabù a partire dalla contrattazione territoriale che è ancora poco sviluppata. Ma le parti sociali potrebbero prestare anche una maggior attenzione a diritti di nuova generazione, come quello a una vera formazione professionale, che possono spingere la produttività e accompagnare l’innovazione riducendo il disallineamento tra domanda e offerta di competenze.

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