Tra ordine e caos: su “Piccoli Preludi” di Helen Garner

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di Ilaria Padovan

Chi vuole se ne va. Ma raramente chi se ne va si merita i sentimenti.

Questa è la vibrazione imprevedibile, impossibile e forse persino inconcludente del mondo di Athena e Dexter Fox, una coppia con due figli, tra cui Billy, disabile, che galleggia in una solitudine diventata quotidiana e, per questo, anche insopportabilmente sopportabile: perché nessuno è più solo di chi sa che lascerà qualcuno che non se n’è ancora reso conto, ma esiste una condizione ancora più incomprensibilmente insanabile: quella del restare. Quella che sceglie il “dovevo farlo”, per quanto profondamente inconciliabile con la sua unica antitesi possibile, il “volevo farlo”. Eccoci, quindi, a Melbourne, negli anni Ottanta: l’arrivo di Elizabeth, la sorella di Dexter, non è un uragano che scompiglia un ordine già fragile, l’arrivo di Elizabeth è l’inevitabile: dovunque, in qualsiasi epoca.

Helen Garner, in Piccoli preludi (Nottetempo, 2025), riesce a condensare il caos delle relazioni umane in un romanzo breve e spietato, dove ogni parola è selezionata con la cura equa e disgraziata con cui tutti si inciampa, non tutti si va avanti. Non c’è spazio per il superfluo; ogni gesto, ogni dialogo diventa una nota che compone un’armonia precaria, come il libro musicale di Bach che dà il titolo al romanzo. Ma sotto questa musica ordinatamente sostenibile si avverte ancora più assordante il suono di tutte le note che non appartengono allo spartito, delle parole che non risuonano mai tra le mura di quella, di questa casa. C’è qualcosa, in Piccoli preludi, che richiama le atmosfere di Camere separate (Bompiani, 1989) di Pier Vittorio Tondelli: le relazioni si consumano nel non detto, in quel filo impalpabile tra presenza e assenza.

La frammentazione dei legami e la difficoltà di trovare un equilibrio emotivo ricordano i dilemmi di Leo, il protagonista di Tondelli, che si muove tra amore e perdita, tra il desiderio di appartenenza e il bisogno di distacco. Come Garner, anche Tondelli racconta vite che oscillano costantemente tra il caos e il tentativo di ordine, tra il dolore dell’assenza e la ricerca di un senso nelle connessioni umane. Ma anche per Sally Rooney le parole che vengono evitate per scelta e le micro-tensioni relazionali sono centrali, tanto da poter leggere una conversazione attraverso decadi e innovazioni tecnologiche che hanno cambiato tutto, ma non hanno cambiato noi, tra lucide fragilità dove insicurezze e desideri già esistenti vengono solamente catalizzate, dove le relazioni evidenziano ed immortalano, per contrasto, i limiti e ciò che manca, come il negativo di una fotografia.

E, proprio oggi, quando le fotografie non significano più niente, destinate a svanire nel giro di una giornata eppure a non abbandonarci mai, ancora più significativa è l’istantanea presente nell’incipit del romanzo («È lacera e tutta macchiata, foderata da una patina di schizzi di grasso. È lì da tanto ormai. Non fa che sfaldarsi, oscillare sbilenca, penzolare da un angolo. Ma ogni volta, proprio quand’è sul punto di cadere, qualcuno la salva, qualcuno la riattacca») potente nella sua metaforica rappresentazione della nostra scarsa capacità di resistenza – e tuttavia – in bilico tra disfacimento inarrestabile e improbabile riscatto. Come pellicole e rullini siamo noi con la nostra subordinazione animale ai legami, al cambiamento, alle conseguenze dei primi sul secondo e viceversa.

Siamo noi, come Cyrus, il protagonista di Martire! (K. Akbar, La nave di Teseo, 2024) – un inno alla vita e alla ricerca del suo senso di cui persino l’amore può essere ragion sufficiente – che «Da settimane giocava a morire. C’erano giorni in cui ero quello che moriva», che giochiamo a questa crudele e unica possibile rappresentazione della vita che si conclude ogni giorno e per ricominciare, daccapo, il successivo: il segreto delle relazioni è nel saper restare, continuando a perpetrare gesti e silenzi che determinino una resurrezione dopo ciascuna dipartita. Il restare è incompatibile con il definitivo, così come i sentimenti. E, in assenza di risoluzioni immutabili, ogni punto di vista vale specialmente grazie al proprio ruolo oppositivo al precedente. Ecco che Dexter sa fare uso del passato («Ci credeva, se ne sostentava, se ne serviva per intessere un senso nel marasma generale») e che, invece Elizabeth il passato lo detesta, in quanto «carico di imbarazzo». L’onestà di Garner nel raccontarci come la verità, la “parte giusta” che stiamo cercando, in realtà, non esiste, ferisce e, proprio per questo, è necessaria.

La conosciamo la famiglia di Piccoli preludi: è la nostra, è qualsiasi famiglia abbiamo conosciuto. E, come le nostre, si è disfatta e ricomposta sotto i nostri occhi al di là di ogni spiegazione possibile. È l’intimità dolorosa di Marriage Story (2019) di Noah Baumbach, è la tensione trattenuta di Scenes from a Marriage (2021) di Hagai Levi. Piccoli Preludi è un romanzo che si legge in poche ore, ma capace di farci notare che il cielo, adesso, è un po’ più basso per interi anni. Una riflessione sull’equilibrio instabile tra ordine e caos, tra passato e presente. Un libro che, come l’opera di Bach, può sembrare semplice ma è infinitamente complesso, e che ci ricorda, con una grazia spietata, che non saremmo in gradi di apprezzare l’armonia senza la minaccia della tragedia.

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