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Per definire il percorso a cui è costretto un paziente cronico in Italia oggi, il professor Loreto Gesualdo utilizza la metafora della “Via Crucis”. Un continuo su e giù tra medico di base e specialisti, fatto di viaggi tra un ambulatorio e l’altro, di prescrizioni e piani terapeutici diversi, di tempo, energie e denaro sprecati. Secondo il presidente della Federazione Italiana Società Medico-Scientifiche (Fism) e ordinario di Nefrologia presso l’Azienda ospedaliera universitaria del Policlinico di Bari, il nostro Servizio sanitario nazionale non è pronto al momento per affrontare il crescente problema delle patologie croniche. L’invecchiamento della popolazione, la mancanza di risorse e l’assenza di una sanità territoriale strutturata rischiano di far saltare il banco nei prossimi anni. “Dobbiamo risolvere la dicotomia tra ospedale e territorio, integrandoli efficacemente”, spiega a ilfattoquotidiano.it Gesualdo. “L’approccio multidisciplinare e la digitalizzazione saranno fondamentali per far fronte a un’emergenza che non è solo italiana, ma che in un Paese anziano come il nostro ha dimensioni preoccupanti. È arrivato il momento che la politica capisca che non c’è più trippa per gatti, che è arrivato il momento di fare il bene del cittadino”.
Migliorare la gestione dei pazienti cronici permetterebbe di ridurre le lunghe liste d’attesa e decongestionare gli ospedali?
Sì, soprattutto i Pronto soccorso che sono ormai l’accesso primario per l’utente. Spesso sono pieni perché non sappiamo a chi affidare i pazienti sul territorio dopo la dimissione dall’ospedale, perché mancano i servizi. È necessario sgravare gli ospedali dal compito di trattare patologie che potrebbero essere gestite diversamente, altrove. Serve un cambio di paradigma per costruire un sistema capace di rispondere non solo alle emergenze, ma anche alla complessità della cronicità, con un approccio multidisciplinare. Il paziente cronico deve stare in ospedale il minor tempo possibile e solo nelle fasi di riacutizzazione.
Quali sono le criticità principali del modello attuale?
Il paziente cronico spesso vive quella che chiamo la “Via Crucis” del nostro sistema. Un esempio: una persona con diabete, insufficienza renale e scompenso cardiaco deve affrontare visite da medici diversi – cardiologo, endocrinologo, nefrologo – con prescrizioni separate, costringendo il medico di medicina generale a fare da solo una sintesi complessa. Questo è inefficiente, anche perché spesso il protagonista di questa “Via Crucis” è un paziente anziano non autosufficiente, che deve per forza essere accompagnato da qualcuno. Dobbiamo connettere gli specialisti su una piattaforma unica, dove il paziente sia al centro e gli specialisti collaborino.
La digitalizzazione del Ssn può aiutare a raggiungere questi obiettivi?
Assolutamente. Le piattaforme di e-Health e il fascicolo sanitario elettronico sono strumenti chiave. Immaginiamo se fosse possibile andare dal medico di medicina generale, presentargli il problema e, dopo avergli permesso di comunicare in piattaforma con i suoi colleghi, ricevere subito, in quel preciso istante, il percorso di cura adatto, con il giusto trattamento farmacologico. È il momento di cominciare a pensare una sanità del futuro, affiancata dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale. Questo ci permetterebbe di fare delle diagnosi più rapide e più precise. E libererebbe tempo per i medici, che potrebbero dedicarsi di più all’ascolto e all’accoglienza delle persone. L’empatia medico-paziente è una parte fondamentale della terapia: chi si sente ascoltato è meno ansioso e ha bisogno di meno cure.
Per fare questo servono risorse.
Certo, c’è bisogno di investimenti, soprattutto sugli organici. Il ministro Schillaci ha chiesto più risorse, ma se il Pil non cresce, dobbiamo tagliare altrove. La sanità è un investimento, non un costo: dobbiamo aumentare gli organici. Partendo dagli infermieri, ne abbiamo pochissimi. Basta guardare il dato Ocse, siamo tra gli ultimi. Invece l’Italia ha molto bisogno di figure intermedie, come infermieri, fisioterapisti, dietisti. Sono figure importanti nella presa in cura di un paziente con cronicità, e ci mancano. Dobbiamo invertire questo trend capendo che possiamo tagliare su tutto, tranne che sulla sanità. Siamo uno dei Paesi che investe meno rispetto al Pil, eppure garantiamo le cure a tutti. Tagliamo sugli armamenti, per esempio, e investiamo in sanità. È un bene comune.
Le disuguaglianze economiche influiscono sulla cronicità?
In Italia, la gran parte dei cittadini che soffre di patologie croniche ha un reddito basso. Questo si collega a un altro problema serio del nostro Paese: l’out of pocket (la spesa sanitaria che copre tutte le prestazioni pagate direttamente dai cittadini, senza il supporto del sistema pubblico, ndr). Vale 40 miliardi ma, se consideriamo il nero nascosto, le proiezioni arrivano fino a 65. È arrivato il momento di reindirizzare queste risorse verso la sanità pubblica. Per riuscire a garantire i servizi a tutti, chi ha di più deve contribuire di più. Anche perché la povertà incide sulle condizioni di salute, aumentando il rischio di cronicità: migliorare le condizioni socioeconomiche è parte integrante della strategia sanitaria. Una buona politica di programmazione può raggiungere questi obiettivi. Ma bisogna avere il coraggio di toccare gli interessi della sanità privata.
Spostandosi nelle regioni del Sud la situazione peggiora.
È fondamentale recuperare al più presto le differenze territoriali, anche in funzione della famosa autonomia differenziata. Prima dobbiamo rimettere in pari tutti, farli partire dallo stesso piano. Altrimenti chi parte svantaggiato, ovvero molte regioni del sud, avrà sempre la marcia ridotta. Ad esempio, la Puglia ha 25mila unità sanitarie in meno rispetto all’Emilia-Romagna, a parità di popolazione. Questo incide sulla qualità dei servizi. In generale, ogni regione dovrebbe essere messa in condizione di offrire servizi omogenei e di alta qualità, eliminando le disparità che penalizzano le aree più svantaggiate. Serve una riorganizzazione. Bisogna puntare su un sistema ospedaliero snello ma altamente efficiente e su un territorio ben strutturato. Gli ospedali devono gestire le acuzie, mentre il territorio deve occuparsi della cronicità e della post-ospedalizzazione.
Le farmacie potrebbero avere un ruolo in questo?
Sicuramente vanno coinvolte in questa prospettiva di sanità diffusa sul territorio. Possono aiutare a decongestionare il Ssn. Lo hanno fatto all’epoca del Covid, quando il farmacista è stato il primo front office per il cittadino, più del medico di medicina generale. Dovremmo coinvolgere questi professionisti nei programmi di screening per le malattie croniche. Un holter pressorio, per esempio, può tranquillamente essere montato in farmacia, evitando al paziente di dover aspettare sei mesi in lista d’attesa.
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