La serie ACAB: così società e polizia si scontrano con la violenza. Marco Giallini: «La guerra è sempre stata tra poveri»

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Esiste un confine tra la violenza subìta e quella esercitata? E se sì, come lo si attraversa? Si pone queste domande ACAB, la serie in sei episodi prodotta da Cattleya e che sarà disponibile su Netflix dal 15 gennaio. Mentre la realtà di questi giorni riporta in primo piano gli scontri in strada tra polizia e manifestanti, con lacrimogeni e manganelli di nuovo al centro delle immagini trasmesse dai telegiornali, la serie diretta da Michele Alhaique e tratta  dall’omonimo libro di Carlo Bonini che l’ha anche ideata e scritta insieme a Filippo Gravino, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini, scava dentro la divisa degli uomini e le donne della polizia di stato, per trovarne il corpo, l’essere umano con i suoi conflitti più profondi. A partire da una notte di scontri feroci in Val di Susa, ACAB racconta le storie personali e professionali di Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè) e Salvatore (Pierluigi Gigante), agenti della squadra mobile di Roma, insieme al nuovo comandante Michele (Adriano Giannini).

Tredici anni dopo l’uscita del film ACAB – All Cops Are Bastards diretto da Stefano Sollima, che in questo progetto torna nella veste di produttore esecutivo, la serie Netflix torna a esplorare quello che muove gli uomini e le donne che indossano una divisa e la complessità dell’eterno conflitto tra ordine e caos. «Lo abbiamo sentito come un progetto necessario e urgente», spiega Tinny Andreatta, vicepresidente Netflix per i contenuti italiani, durante la conferenza stampa di presentazione a Roma. «Questa serie non è solo una storia crime e di azione: è uno sguardo profondo su un sistema complesso e polarizzato, in cui violenza, rabbia repressa e disillusione mettono alla prova tanto i poliziotti quanto la società che li circonda». Tra i primi ad essere messo nelle condizioni di scontrarsi con il suo conflitto c’è Ivano, detto Mazinga, che dietro alla faccia da duro e lo sguardo che sembra sempre rivolto altrove nasconde un’emotività che lo mette con le spalle al muro. «Per interpretarlo mi sono allontanato un po’ mentalmente dal Mazinga che avevo conosciuto 13 anni fa e ho cercato di sfruttare quella cosa psicologicamente. Non sono stato molto addosso al personaggio del film».

E se da una parte gli scontri di questi giorni a Roma confermano la regola per cui la realtà è sempre un passo avanti anche all’immaginazione, dall’altra ACAB indaga il reale sospendendo ogni giudizio. E ci riesce. «La sensazione è che la realtà sia sempre un passo avanti, perché ha questa capacità di sorprenderti se la guardi senza pregiudizio», commenta Carlo Bonini. «La gestione dell’ordine pubblico risente sempre del contesto politico del momento, le forze dell’ordine sono uno strumento del potere esecutivo. È nel tempo del governo delle destre così come in quello delle sinistre. Che cosa significa dire “sto con la polizia” o “sto contro la polizia”. La serie affronta questo punto qui ovvero che chiunque appartenga alle forze dell’ordine si trovi di fronti al confine che separa l’utilizzo legittimo o illegittimo della violenza e spesso si trovi a doverlo decidere in pochi secondi. Io penso che proprio perché lo stato ha il monopolio della forza, lo stato dev’essere rigoroso nel punire laddove l’esercizio del monopolio è illegittimo. Questo serve per ricostruire la fiducia e non avviene abbiamo tutti un problema non solo il cittadino ma anche chi indossa la divisa». I celerini non sono poliziotti come gli altri. Lo spiegano bene Bonini e Filippo Gravino quando sottolineano che «sono gli uomini scelti dallo Stato per presidiare quel confine sottile e oscuro, quella zona d’ombra, che chiamiamo genericamente “piazza”, sia questa il centro storico di una città, una discarica, un cantiere, i cancelli di una fabbrica, il molo di un porto, uno stadio.  Sono la faccia protetta da un casco che lo Stato offre in prima istanza al cittadino nel suo atto di ribellione».

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Sono quelli che in ACAB si sentono uniti da un sentimento di fratellanza che li trasforma in famiglia quando uno di loro viene gravemente ferito. «La guerra è sempre stata fra poveri, ricordo tante morti inutili anche da ragazzo», commenta Giallini. «Non ho fatto in tempo a partecipare a lotte politiche, negli anni’ 70 ero piccolo e vedevo questi che si tiravano le bottiglie in Viale Somalia. Scene che ho rivisto in televisione. Mi è sempre sembrato che le morti della politica fossero un po’ tutte inutili. Erano ragazzi che si massacravano in nome di cosa? La società oggi sta tornando indietro».



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