Superbo. Toccante. Fantastico. Ipnotico. La sua è la performance dell’anno. A caso, ecco un pugno di osanna tributati a Timothée Chalamet da note riviste cinematografiche. Hai voglia a cercare una recensione che non sia entusiastica, o non deliri per la sua performance in A Complete Unknown, nei cinema italiani dal 23 gennaio. Non la trovi. Il severo critico del New Yorker, che pure accusa il film di mitizzare il giovane Bob Dylan, ammette tuttavia che l’attore «indovina in modo incredibile la voce e il modo di cantare di Dylan».
Timothée Chalamet da Wonka a Dylan
Il già protagonista di Chiamami col tuo nome, Dune I, Dune II e Wonka, lo impersona all’inizio della carriera, nei primi anni ’60. Giacchetta e jeans striminziti, chitarra al collo, il ragazzo di St. Louis County, Minnesota, arriva a New York, si installa al Greenwich Village, incontra Pete Seeger (il cantante folk che lo introduce nel mondo musicale) e il suo idolo assoluto, Woody Guthrie. Sfida manager e discografici con una determinazione che disarma, scrive brani di continuo, inizia una lunga relazione con l’artista Suze Rotolo (Elle Fanning sullo schermo), e la tradisce con Joan Baez (l’attrice Monica Barbaro), sua sfidante in musica ma intermittente compagna in amore.
Chalamet proclama con chiarezza che la natura elusiva e dinamica di Dylan continua ad affascinare sfuggendo alle catalogazioni. Alle prese con una missione quasi impossibile, nel ruolo di Bob ha conquistato tutti: i critici cinematografi ci e quelli musicali, i giornalisti che l’hanno nominato per i Golden Globes e i Critics’ Choice Awards e, infine, i social media, lui che solo su Instagram conta 19 milioni di follower. Si avvicina ora a grandi passi all’Oscar: in caso vincesse, eguaglierebbe Adrien Brody, che a 29 anni (nel 2003) con Il pianista fu il più giovane vincitore nella storia. E che, ironia della sorte, è il suo più temibile rivale per la statuetta quest’anno con The Brutalist. Di questo film che – c’è da scommettere – sarà un successo al box office internazionale (Wonka incassò 625 milioni di dollari, Dune II 700 e passa), lui è pure il produttore, così come lo è anche del suo prossimo progetto, Marty Supreme, ispirato dal celebre campione americano di ping pong Marty Reisman.
Timothée Chalamet piace invariabilmente a tutti: studios, filmmaker indipendenti, fotografi di moda e brand sofisticati (solo per il suo spot pubblicitario Bleu de Chanel, firmato Martin Scorsese, ha incassato 35 milioni di dollari). «A 29 anni appena compiuti Timothée è già un veterano dell’industria, sa bene quello che fa» mi racconta durante un’intervista Edward Norton, che impersona Seeger, pure lui nominato ai Golden Globes, come migliore attore non protagonista (ha però vinto Kieran Culkin con A Real Pain). «Ha la testa piantata saldamente sulle spalle, curiosità artistiche e intellettuali notevoli, sembra sempre padrone del proprio spazio. Ha cominciato a recitare giovanissimo e non ha alcun bisogno di dritte. Oltretutto, è anche buffo e spiritoso». A conferma, ricordiamo qui il suo Willy in Wonka: tenero, divertente, singolare.
James Mangold, il regista di A Complete Unknown, preferisce mettere in evidenza la sua versatilità di attore, e mi spiega: «Tim è un personaggio unico, creativo in senso assoluto. È diventato Dylan non perché gli somigli, ma perché ha l’anima e l’energia giuste. Possiede un innato senso del gioco, dell’avventura, dello scherzo. E della sfida: può passare dai 19 ai 40 anni in un soffio, e tu gli credi».
Baffetti e sguardo impudente
Adesso che ce l’ho qui davanti a me – in una videointervista individuale – in maglietta di cotone a righe bianche e blu, coi baffetti sottili e lo sguardo da furetto impudente, più che una star mi pare un liceale. In un momento di relativa crisi dell’industria, è coccolato oltre ogni dire da un entourage di publicist e addetti ai lavori, ma di continuo si tira indietro, smitizzando quella sua inequivocabile immagine da super star. Al nostro secondo incontro, qualche giorno dopo, allegro e più sciolto, si fa gioco dei nostri pullover di lana, un po’ vintage, un po’ design (il suo ha una grande croce). Spontaneo e acuto allo stesso tempo, è un maghetto dell’intervista in diretta.
L’impatto, il messaggio e la forza delle liriche di Dylan hanno la stessa attualità oggi di 50-60 anni fa. Immagino che come interprete e produttore abbia sentito l’immensa responsabilità di riproporre sullo schermo un artista già leggendario e ancora mitico.
Assolutamente, una responsabilità tremenda! Dylan è un mito – come lei suggerisce – ma tutti sul set ci eravamo prefi ssi di off rire un umile ponte per i giovani di oggi, perché possano così scoprire la sua musica, e la sua straordinaria infl uenza. Agli anni ’60, poi, ho dedicato già metà della mia carriera: Dune fu scritto da Frank Herbert nel 1965. È stato un periodo tra i più ricchi della cultura americana, e per questo – come produttore – ho sentito un’enorme pressione nel curare ogni particolare. Volevo rendesse giustizia a Dylan e ai tanti formidabili artisti dell’epoca.
Negli anni ’60 e ’70 una buona parte della mia generazione protestava e manifestava. La contestazione giovanile era parte della nostra vita, e un movimento sociale importante nel mondo. Vedo ora meno interesse e motivazione nei ragazzi. Lei, personalmente, non è preoccupato?
Come posso non essere preoccupato? Gli anni ’60 rappresentarono l’ottimismo del dopoguerra assieme alla naiveté, al grande sorriso degli anni ’50. È facile ma sbrigativo bollare d’infamia le nuove generazioni in Italia, Stati Uniti o Gran Bretagna: oggi, ammettiamolo, i movimenti politici sono estremi e paiono corrotti, viviamo lunghe guerre, la situazione del pianeta è disastrosa e sconfortante, la violenza e le armi sono piombate di forza in America pure nelle scuole elementari… La posta in gioco è altissima, la realtà drammatica. Credo sia importante vedere questo fi lm e aprire un discorso su quel periodo e certi talenti. E penso che la strada migliore sia riconoscere certe verità, capire che la musica può portare luce su quello che sta succedendo, e illuminare. Sarebbe un primo, importante passo avanti.
Quanti anni aveva quando scoprì Bob Dylan?
Ventidue. A quel punto cominciavo ad avere una buona conoscenza dell’inglese, non solo del francese (è figlio di un giornalista francese che ora lavora all’Onu e di un’ex danzatrice americana, ndr).
Si è preparato per anni al ruolo, per suonare la chitarra come lui, e cantare come lui. Le è stato difficile mostrare certi aspetti negativi della sua personalità, a volte poco conciliante, arrogante, egocentrica?
È una domanda che mi pongono in parecchi, ma non ho mai provato quella sensazione; a me Dylan è parso soprattutto stimolante, provocatorio, liberatorio. Un eroe che dà vigore.
Si è mai identificato in lui?
No, ma… Tutti vorremmo essere un po’ come lui, non le pare?
Timothée, lei sceglie da anni con molta attenzione progetti sempre diversi, e ama trasformarsi in personaggi differenti: il Paul Atreides di Dune, un adolescente vulnerabile messo continuamente alla prova da adulti imperiosi; il sincero e naïf Willy Wonka, con il cuore pieno di sogni; e il diciassettenne Elio di Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, un intellettuale multiforme, un musicista. Anche la sua immagine pubblica, il suo stile, il suo look cambiano di continuo. Questo suo proteismo è il risultato di anni di lavoro come attore, produttore, artista oppure Timothée è semplicemente nato così, e tutto gli viene spontaneo?
Forse è un po’ di tutto questo assieme… (lungo silenzio) Guardi, a essere sincero, non ne ho idea. (mi fissa e sbotta a ridere)
E il suo stile? Il suo modo di vestirsi e sfilare, di presentarsi?
Non lo so, davvero non lo so. Devo comunque ammettere che ho subito notato il suo bel golf verde. Bello! È vintage, per caso?
E giù a ridere di nuovo, questa volta tutti e due insieme.
iO Donna ©RIPRODUZIONE RISERVATA
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link