I silenzi di Angelo Mariano Fabiani, l’uomo che ha creato la Lazio di Baroni

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Chi è il direttore sportivo che ha creato la Lazio che l’allenatore Marco Baroni ha portato al quarto posto in Serie A. Le sue poche parole, il tanto lavoro e la capacità di capire prima di tanti il talento dei giocatori


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ATrieste i tifosi della Triestina lo avevano inizialmente soprannominato Strafanic, ossia aggeggio inutile, soprammobile. Non aveva fatto colpo Angelo Mariano Fabiani. Come direttore sportivo l’aveva voluto il presidente Luciano Vendramini, uno che i tifosi accusavano di tirchieria. E Angelo Mariano Fabiani si era messo al lavoro con pochi soldi e, sostenevano i sostenitori dell’Unione, con poche idee. Giocatori presi qua e là per due spicci, nessun nome capace di far cresce l’entusiasmo, qualche giovane sconosciuto, un paio di atleti considerati dai più finiti, tipo Angelo Pagotto che rientrava dalla squalifica per positività alla cocaina, ma che, dicevano, era apprezzato da Luciano Moggi. Quella Triestina, giornalisti e tifosi, la consideravano a rischio retrocessione a inizio anno. Ottenne la promozione in Serie B dopo i playoff. 

 

Già a metà stagione nessuno lo chiamava più Strafanic. Per tutti era diventato solo Silenzio. Non parlava mai Angelo Mariano Fabiani. Ha parlato poco anche dopo le promozioni alla guida di Messina, Genoa, Venezia e Salernitana. Non parla nemmeno oggi che la Lazio, la Lazio che ha creato e affidato a Marco Baroni, sta lottando per la qualificazione in Champions League

 

Non parla perché forse pensa ancora quello che aveva detto a un giornalista del Piccolo nel 2001: “Non voglio dire niente. Si parla quando c’è chi è disposto a stare ad ascoltare e nel calcio nessuno ascolta, tutti giudicano. Fortuna che alla fine a parlare sono i risultati”. Per lui hanno sempre parlato quelli. E bene.

 

Nella sua carriera ha ottenuto promozioni in C, in B, in A. L’ultima volta ci riuscì con la Salernitana. E sì che nell’estate del 2020 nessuno avrebbe scommesso un euro sulla promozione dei granata. A Salerno si era speso poco e niente, erano arrivati molti sconosciuti sui quali c’erano aspettative bassissime. Per di più l’unico bravo per davvero, Jean-Daniel Akpa Akpro, se ne era andato alla Lazio, l’altra squadra del presidente Claudio Lotito, il presidente fantasma, come dicevano i tifosi granata. La squadra invece terminò il campionato al secondo posto e tornò in Serie A dopo ventiquattro anni e due fallimenti. 

 

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Di Angelo Mariano Fabiani, Claudio Lotito ha sempre avuto stima. Soprattutto perché “non butta via denaro, segue il buon senso, lavora tanto e bene”, disse al Corriere dello sport qualche settimana dopo averlo nominato direttore sportivo della Lazio. 

 

Claudio Lotito e Angelo Mariano Fabiani sono diversissimi e simili. Il primo è esuberante e istrione, il secondo è invisibile e riservato. Sono uniti soprattutto da un giudizio malevolo da parte dei più. Non stanno simpatici, non fanno nulla per esserlo. Li criticano perché fanno di testa loro e senza prestare attenzione a quello che i tifosi si aspettano. Hanno idee chiare e la convinzione di capirne di calcio, di sapere soprattutto riconoscere il talento dei calciatori. Lo hanno dimostrato coi fatti più e più volte. 

 

Claudio Lotito ha portato la Lazio più volte nelle primissime posizioni della Serie A, molto spesso nelle coppe europee. La squadra durante la sua presidenza ha vinto tre volte la Coppa Italia e tre volte la Supercoppa italiana. Eppure non c’è stagione nella quale venga criticato. Angelo Mariano Fabiani ha costruito squadre capaci di grandi risultati chiudendo sempre con bilanci in attivo, eppure negli anni è stato per i tifosi uno “spilorcio”, un “buffone”, un “incapace” ed è stato descritto come “arrogante”, “strafottente”, “spregevole” non si sa bene per quale ragione. Forse solamente per la sua assoluta discrezione o la sua ritrosia alla parola in pubblico. O forse per la stima che ha sempre avuto da parte di Luciano Moggi, il grande demone del calcio italiano. Dicevano che Angelo Mariano Fabiani fosse uno dei bracci armati di Moggi in provincia. Finì addirittura in tribunale accusato di essere complice dell’ex dirigente della Juventus della creazione di un “sistema utile ad instaurare dialoghi e rapporti diretti con alcuni arbitri tramite l’ausilio di schede telefoniche estere”. Venne squalificato calcisticamente, assolto dalla giustizia italiana. Il tempo dimostrò che gli ottimi risultati al Messina e poi altrove furono frutto soltanto della sua capacità di intuire il talento e gestire le squadre.





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