Rino Tommasi, la voce dello sport che dava i numeri

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Era nato il 23 febbraio del 1934 a Verona, Rino Tommasi: giornalista, scrittore, organizzatore di incontri di boxe e mille altre cose che hanno sempre anticipato tutto e tutti, oltre che legittimo proprietario di una delle voci più riconoscibili per gli appassionati di sport, una delle madeleines sonore più dolci da associare a quelle lente domeniche di una volta che un giorno ci siamo voltati a guardare e non le abbiamo trovate più, proprio come il Bufalo Bill di De Gregori faceva con i suoi vent’anni.

Impossibile cambiare canale

Tommasi è morto ieri, a Roma, vivendo “per un totale di 33’192 giorni”, come avrebbe potuto dire lui, che andava matto per le statistiche, sapendo però che 33’192 giorni li puoi riempire in modi molto diversi e che i numeri possono aiutarti a spiegare tutto eppure da soli non riescono a spiegarti nulla.

Perché ci vuole uno bravo per svelarti la realtà che è sotto gli occhi di tutti, e lui – insieme al compagno di microfono Gianni Clerici, morto nel 2022 – era stato il più bravo, trasformando le telecronache delle partite di tennis in spettacoli d’arte varia: sapevano raccontarti perfettamente la partita che avevi davanti agli occhi eppure avevano una capacità rara di capire quando non era affatto il caso di commentarla e lasciare gli affari di campo sullo sfondo per parlare d’altro, riempire i vuoti di uno sport sclerotico e diabolico capace di farti incollare allo schermo come di cambiare canale. Quando c’erano loro, però, cambiare canale era quasi impossibile.

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Con l’amico Gianni Clerici

C’era gente (e chi scrive è tra questi) capace di sorbirsi interi turni soporiferi di uno Slam (se non di un torneo minore) pur di sentirli parlare all’infinito di tennis o – quasi meglio – di tutt’altro: di arte, atleti lontani nel tempo e posti lontanissimi nello spazio, di amicizia, filosofia alta e spicciola e di vite che non erano le nostre, ma volevamo tanto lo fossero, soprattutto se a raccontarle c’erano loro con quel mix di ironia, intelligenza e disincanto. Si completavano perfettamente, Tommasi coi piedi per terra e un occhio sempre attento alle statistiche, soprannominato “ComputeRino”, e Clerici con la testa tra le nuvole a infilare parole prestate da altri vocabolari, altri ambiti senza che sembrassero mai forzate, come se fossero state sempre lì, solo in attesa del punto, della giocata giusto per comparire. Un Clerici capace di digressioni ardite a tal punto da essere chiamato dal suo compagno di telecronache “Dottor Divago”.

La teoria della telecamera

Tra i siparietti più celebri ce n’è uno a Wimbledon, che è quasi un manifesto contro il mondo che verrà, anzi è già arrivato, quello della vanità social e della telecamera puntata eternamente su di noi, quando Tommasi e Clerici, durante il cambio campo di una partita tra Federer e Philippoussis, si accorgono che la regia indugia su due donne in uniforme che sorridono e salutano verso l’obiettivo. Lo scriba non resiste e parte in quarta: “Salutano la mamma. Anche le vigilesse, guarda come sono emozionate. Chissà perché la gente appena appare una telecamera diventa proprio stupida. Non so, un curioso effetto”. “Forse lo è, ed è la telecamera che le scopre”, risponde d’istinto Tommasi alzando la palla per uno smash conclusivo perfetto del suo partner: “Questa è una teoria interessante. Questa non è la sede per aprire un dibattito, ma mi pare un punto di vista non trascurabile”. Quando dopo qualche punto la regia riprende una porzione di pubblico con alcuni vestiti come a un Carnevale stanco (con occhialoni giganti e strani cappelli colorati a metà tra un copricapo dei nativi e una scopa) che si agitano all’istante, Clerici riprende il filo: “Forse la tua teoria è fondatissima”.

Anche per questo, ridurre Tommasi al calcolatore elettronico dell’etereo ‘scriba’ Clerici sarebbe un errore madornale. Perché, come diceva lui, “il computer sa far di conto, ma non conosce il tennis”. E, viene da aggiungere, non sa un sacco di altre cose. A quelle ci pensava lui, con o senza Clerici.

La scoperta dell’America

Uomo di immensa cultura, sempre capace di vivere il proprio tempo e spessissimo – come detto – di anticiparlo facendo la cosa più semplice, che però nessuno faceva, e cioè guardare agli sport e ai media americani, Tommasi è stato l’apripista di tutto o quasi per il giornalismo di lunga italiana anche grazie a Silvio Berlusconi, che all’inizio degli anni Ottanta – in un’epoca in cui lo sport in tv era relegato solo ai grandi eventi – ebbe una doppia intuizione, puntare sugli sport Made in Usa e affidare la direzione dei servizi sportivi a Tommasi, già capace di maneggiare tornei all’epoca considerati esotici, come il basket Nba, l’hockey, il baseball e il football americano. Commenterà negli anni 7 Super Bowl, innumerevoli partite (su Wikipedia c’è una statistica, chissà se veritiera, ma che di sicuro rende bene l’idea, che lo vuole per 157 volte negli Stati Uniti per lavoro). Scovando tra i video di internet si trova davvero di tutto, compreso il Tommasi telecronista sperimentale addirittura alle prese con una partita di calcio indoor a 7 tra Ajax e Milan di un Mundialito, altra creatura berlusconiana anticipatrice di Superleghe e Kings League varie.


Wikipedia
Organizzatore di incontri di boxe negli anni Sessanta

Se c’era una novità nello sport italiano e nel modo di raccontarlo c’era Tommasi e il più delle volte l’aveva portata lui, che aveva cominciato a scrivere di sport appena 19enne, pubblicato sulle pagine delle Marche (dove si era trasferito dal Veneto con la famiglia) de Il Messaggero. Era anche cresciuto in mezzo a sportivi: il padre Virgilio era stato per 13 anni detentore del record italiano di salto in alto e aveva partecipato a due edizioni delle Olimpiadi (1924 e 1928), Rino invece era stato campione italiano universitario di tennis per 4 volte (“a conferma del basso livello culturale dei migliori tennisti italiani”, scherzava lui) oltre che due volte medaglia di bronzo ai Mondiali studenteschi.

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La penna infine si rivelò più congeniale della racchetta e Tommasi passò prima a Tuttosport e poi a La Gazzetta dello Sport, dove scrisse per oltre quarant’anni. Nel frattempo, negli anni Sessanta, si dedicò all’organizzazione di incontri di pugilato a Roma, riuscendo a spostare il baricentro italiano della boxe di allora da Milano alla capitale. Aveva l’occhio lungo e sapeva scorgere campioni tra mille guantoni. Quando un decennio più tardi si accorse che la tv si sarebbe mangiata la boxe smise di organizzare incontri e passò dietro al microfono per raccontarli, sempre sulle reti di Berlusconi e pi su Tele+, prima Pay tv italiana ed ennesimo salto nel vuoto affidato alla sua sensibilità giornalistica, non solo sportiva (intervistò Henry Kissinger e una volta, nel suo contenitore tv Fair Play, portò nello stesso studio Enzo Biagi, Giorgio Bocca e un altro grande giornalista sportivo che ci ha lasciato da poco, Gian Paolo Ormezzano). Quando ormai era diventato la voce della boxe italiana si innamorò di un giovanissimo pugile sconosciuto visto su una Vhs, comprando i diritti dei suoi futuri incontri: quel pugile era Mike Tyson.

Ebbe altre grandi intuizioni, la più celebre è data 1983, anno in cui Stefan Edberg vinse il Grande Slam juniores. Vedendolo giocare sull’erba di Wimbledon, Tommasi disse: “Se Edberg non vince a Londra entro cinque anni smetto di seguire il tennis”. Ovviamente, pur prendendosela comoda, Edberg e il tempo gli diedero ragione quando lo svedese trionfò sull’erba inglese esattamente cinque anni più tardi, nel 1988, battendo l’altro astro nascente Boris Becker.


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Con un giovanissimo Mike Tyson

I neologismi

Tommasi è poi stato forse l’unico, insieme a Gianni Brera, a coniare tante parole ed espressioni rimaste nel tempo. Se Brera aveva creato quasi dal nulla un gergo calcistico ben più povero prima di lui (contropiede, centrocampista, libero, goleador, melina, palla gol, pretattica…), Tommasi è riuscito perfino ad andare oltre con “il mio “personalissimo cartellino”. Era il suo modo di dire la sua dopo ogni round o incontro prima ancora che arrivasse il verdetto dei giudici, perché Tommasi non si è mai nascosto, anche quando commentava incontri noiosi era il primo a dirlo, fregandosene della prima regola della tv commerciale e di qualsiasi commerciante, ovvero parlare bene del proprio prodotto. Lui però diceva che faceva il giornalista “non il venditore di tappeti”. Quando assisteva a un incontro di basso livello a volte diceva: “Non sono sempre pernici”. E per mettere in rilievo la tecnica limitata di alcuni bombardieri da fondo coniò la frase: “Chiamato a toccare di fino rivelava le sue umili origini”. Per questo criticò spesso e fortemente Andy Roddick, che dotato di un grande servizio e di un dritto eccezionale, non lavorò – a suo dire – mai abbastanza sul rovescio, costringendolo a una delle sue poche previsioni sbagliate, quando agli Us Open del 2003 disse: “Questo è il primo, ma non certo l’ultimo Slam per Andy Roddick”. E invece fu l’ultimo.

Tommasi diceva anche che nel giornalismo si può, anzi si deve essere obiettivi, ma è impossibile essere neutrali. Un ottimo insegnamento, molto più etico di quel che sembra, ma che pochi hanno capito in questi di tempi di barricate ideologiche o presunti tentativi di anestetizzare e ingabbiare i dibattiti. Inventò il termine “veronica”, mutuato dalla corrida, per descrivere le volée alta di rovescio, e a lui si devono il “mini-break” del tie-break, il “dritto anomalo”, il “punteggio periodico” (quello identico in ogni set, come 6-2 6-2 6-2). Tommasi è stato genio (enorme) senza sregolatezza, capace di affermare l’importanza della passione e dello studio nel proprio lavoro, qualunque esso sia.

La memoria, la malattia

Qualche anno fa, mentre ero in auto, ascoltai per caso un suo intervento a Radio Sportiva: chiamato a commentare le gesta di un campione di atletica leggera parlava in modo sconnesso e con una voce impastata solo e sempre di Rafa Nadal come se si fosse incantato, divagando continuamente e deragliando; non come faceva per il gusto di giocare l’amico Clerici, ma come se qualcosa imprigionasse la sua mente nell’angolo in cui c’era solo il tennista spagnolo e nessun altro. All’inizio quell’intervento suonava ridicolo, grottesco (come spesso accade assistendo ai panegirici di certi vecchi giornalisti tromboni che non mollano mai l’osso) per diventare sempre più angosciante e spaventoso man mano che Tommasi proseguiva perdendosi dentro il labirinto di sé stesso. Un momento fortemente disumano e umano al tempo stesso. Capii. Chiesi – tra me e me – pietà e decenza per lui, come davanti a un corpo rimasto improvvisamente nudo suo malgrado. Anche chi lo stava intervistando dopo un po’ capì e cercò di chiudere il più in fretta e il più elegantemente possibile la telefonata con il rispetto dovuto al collega-totem.

Considerato un uomo dalla memoria formidabile, il computer del giornalismo sportivo italiano, Tommasi è stato in vecchiaia colpito da una malattia atroce, annichilente, una sorta di contrappasso dantesco, di maledizione da tragedia greca per uno come lui: l’Alzheimer.

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