La promessa italiana all’Iran per la liberazione di Cecilia Sala: no all’estradizione di Abedini

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Non è il ponte di Glienicke a Berlino dove americani e sovietici trafficavano ostaggi durante la guerra fredda, ma la storia è quasi la stessa. L’unica differenza è nei tempi dello scambio. Differiti in questo caso: dopo tre settimane di prigionia nel famigerato carcere di Evin, ieri, Cecilia Sala è tornata in Italia dall’Iran, prima o poi Mohammed Abedini farà il percorso inverso. Intanto, e questo è il particolare decisivo, Roma ha garantito a Teheran che l’ingegnere arrestato il 13 dicembre a Malpensa non verrà estradato negli Stati Uniti, dove su di lui pendono accuse di terrorismo, cospirazione e associazione a delinquere.

LA SVOLTA è arrivata dopo la visita di Giorgia Meloni a Donald Trump nella sua residenza privata di Mar-a-Lago, sabato notte: in quella sede il presidente eletto degli Usa ha garantito che non avrebbe alzato più di un sopracciglio di fronte al diniego dell’estradizione dell’uomo che la sua intelligence considera molto ben informato sulle strategie militari iraniane (e al quale viene addebitata la fornitura di componenti per i droni che hanno ucciso tre soldati in Giordania nel gennaio dell’anno scorso). Per l’Italia è stato il via libera a procedere allo scambio dei prigionieri e l’unico motivo per cui non c’è una completa contemporaneità nella consegna è che oggi, a Roma, arriverà Joe Biden e lasciar andare «l’uomo dei droni» sarebbe uno sgarbo troppo grande nei suoi confronti. Perché il problema è sempre mantenere buoni rapporti con gli States, costi quel che costi, al di là di chi sia e chi non sia il presidente. E anche al di là delle più o meno legittime aspirazioni politiche di Meloni di diventare la referente europea del trumpismo negli anni a venire.

QUINDI, salvo complicazioni, per l’ultima parola bisognerà aspettare mercoledì della settimana prossima, quando la Corte d’appello di Milano discuterà in udienza camerale dell’istanza di liberazione per Abedini, attualmente in carcere a Opera. Se i giudici lo lasceranno andare ai domiciliari in una residenza offerta dal consolato iraniano, a quel punto si tratterà solo di aspettare i tempi tecnici del (certo) no all’estradizione, per la quale da oltreoceano non sono nemmeno arrivate le carte necessarie a capire di preciso quali siano le accuse. Comunque il ministro della Giustizia Carlo Nordio è pronto a firmare per la sua liberazione, cosa che può fare in virtù dell’articolo 718 del codice di procedura penale. L’imperativo, infatti, resta di chiudere la vicenda entro il 20 gennaio, quando Trump entrerà in carica alla Casa Bianca.

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IERI, intorno all’ora di pranzo, Nordio è salito a palazzo Chigi per parlare con Meloni e poi ha incontrato anche il sottosegretario Alfredo Mantovano, altra pedina centrale dell’intrigo. Dopo le voci circolate in mattinata su imminenti «novità» riguardo Abedini, nel primo pomeriggio, da via Arenula è uscita una nota dal sapore surreale: nel giorno della liberazione di Sala, il ministro non sarebbe andato dalla premier a parlare di questo, ma dei guai del processo telematico e della riforma sulla separazione delle carriere in discussione alla Camera. Una versione dei fatti talmente inverosimile da risultare comica, ma che si spiega con il principio di reciprocità che ha caratterizzato tutte le tre settimane di trattative. L’Iran, da lunedì, ha cominciato a dire che l’arresto di Sala nulla avrebbe a che vedere con quello di Abedini. E dunque lo stesso fa l’Italia: l’uno non c’entra niente con l’altra. «Abbiamo un trattato di estradizione con gli Stati Uniti che viene valutato secondo i parametri giuridici», ha detto Nordio per tagliare corto. La diplomazia, del resto, è fatta di formalità e in questo contesto vanno lette anche le affermazioni fatte da Tajani: «Gli stessi iraniani hanno separato le due cose».

DIETRO le dichiarazioni di rito, le trattative hanno cominciato ad accelerare a partire da lunedì, quando appunto gli iraniani hanno cominciato a separare i due casi . Nello stesso giorno, prima era uscita la notizia delle dimissioni di Elisabetta Belloni dalla direzione del Dis e poi Mantovano era andato al Copasir a ragguagliare i parlamentari sugli ultimi sviluppi, lasciando filtrare una buona dose di ottimismo. Martedì, poi, la portavoce del governo della Repubblica islamica ha detto di sperare che il caso della giornalista si potesse risolvere in fretta. A leggere le dichiarazioni fatte da Belloni al Corriere della Sera e uscite ieri, infine, si trova la quadratura del cerchio. «Non sarebbe stato meglio attendere che Cecilia Sala rientrasse in Italia prima di rendere noto l’addio?», domanda la vicedirettrice Fiorenza Sarzanini, che ha fatto la sua intervista nelle ore in cui venivano definiti i dettagli del rimpatrio. Risposta: «Io sono ancora in carica e non vengo certamente meno ai miei doveri». Considerando che le dimissioni di Belloni diventeranno esecutive dal 15 gennaio, era come confessare la data di scadenza della storia.

DA QUI la liberazione della reporter, arrivata all’improvviso solo fino a un certo punto. Dopo il caos dei primi giorni con il mancato avviso ai servizi segreti dell’arresto di Abedini, la presa di Sala a Teheran e una fase iniziale delle trattative a dir poco problematica, il lasciapassare Usa ha permesso all’Italia di fare le sue mosse. Forse ci saranno strascichi. E forse la partita è stata in realtà più grande di quanto si sappia adesso. Ma tutto è bene quel che finisce bene: Cecilia è tornata a casa.



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