​Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro

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Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro

I paragrafi 1 e 7 sono opera di Roberto Giovanni Conti, quelli da 2 a 6 di Mario Serio ma l’intero commento è frutto di piena e ragionata condivisione delle riflessioni ivi svolte.

 

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La prima sezione civile della Corte di Cassazione, interpellata sulla base di un rinvio pregiudiziale effettuato ai sensi dell’art.363 bis c.p.c. dal Tribunale di Roma, ha chiarito con l’articolata sentenza n.33398 del 19 dicembre 2024 quali poteri residuino al Giudice chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione del rigetto in via amministrativa della domanda di protezione internazionale relativamente alla conferma o alla smentita nel caso di specie della designazione attraverso uno strumento normativo di un paese come sicuro. Là pronuncia scorre lungo i binari del rigore argomentativo, saggiamente alimentato dalla necessaria affezione a principi fondativi del nostro ordinamento giuridico, già risalenti alla legge abolitiva del contenzioso amministrativa del 1865, e collega la questione ad un versante di rilevanza costituzionale, quale quello della protezione internazionale in funzione sia di garanzia del diritto d’asilo sia in relazione alle insopprimibili garanzie di tutela di diritti fondamentali della persona. Le conclusioni di carattere generale, nitidamente rivolte anche in direzione applicativa concreta, cui la Cassazione è pervenuta corroborano la diffusa linea interpretativa dei giudici di merito che non hanno inteso cedere alla tentazione di risolvere le questioni afferenti alla protezione internazionale riparandosi dietro l’acritica adesione alla designazione di “paese sicuro” ratione temporis affidata ad un atto amministrativo ed hanno, pertanto, rinverdito poteri cognitori incisivi e diretti a scopi di “enforcement” costituzionale. In ultima e rasserenante analisi il tratto della centralità dei diritti e della dignità umani ha il benefico sopravvento su linee ed indirizzi, non giurisprudenziali, che, anche sull’impeto di onde emotive, adottano scale di valori ed obiettivi molto differenti ed altrettanto eterogenei. La stessa sentenza offre un illuminante esempio della proficuità degli esiti del rinvio pregiudiziale di cui all’art.363 bis c.p.c., così contribuendo al consolidamento del proficuo dialogo tra giudici di merito e giudici di legittimità, ancor più fruttuoso se condotto, come in questo caso, sotto l’egida del diritto eurounitario e dei principi costituzionali.

 

Sommario: 1. La genesi di Cass.n.33398/2024 – 2. Inquadramento dell’oggetto dell’indagine – 3. L’occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art.363 bis c.p.c. – 4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione di paese sicuro in funzione della protezione internazionale – 5. Le linee argomentative della sentenza 33398/2024 della Corte di cassazione nel conflitto tra le possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate in via accelerata ed i loro effetti applicativi – 6. Il senso ampio delle conclusioni decisorie – 7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.

 

1. La genesi di Cass.n.33398/2024

La sentenza impugnata si inserisce in un panorama giurisprudenziale che aveva espresso indirizzi non uniformi in ordine al potere disapplicativo da parte del giudice ordinario della designazione di paesi sicuri contemplata, in attuazione dall’art. 2 bis d.lgs. n. 25 del 2008, dal d.m. 4 ottobre 2019, poi modificato con d.m. 17/03/2023 e dal d.m.7 maggio 2024, salvo a lasciare il campo al d.l.n.145/2024, convertito con modificazioni dalla l.n187/2024.

Quanto al piano UE, la nozione di Paese sicuro, dapprima introdotta dalla direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1° dicembre 2005 con gli artt. 29 – disposizione invalidata da Corte giust. UE, 6 maggio 2008, causa C-133/06, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea – 30 e 31, è stata regolata dalla direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 (cd. direttiva procedure) con gli artt.36 e 37, individuando la cornice entro la quale può inserirsi la nozione di Paese di origine sicuro e le conseguenze di tale nozione sulle procedure di valutazione delle domande.

Proprio in forza dell’allegato 1, richiamato dall’art.37 ult. cit., gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta di designare Paesi di origine sicuri, stabilendo che «Un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di “non-refoulement” conformemente alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.» 

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Cass. n.33398/2024 interviene, sollecitata dal Tribunale di Roma, in sede di rinvio pregiudiziale ex art.363 bis, c.p.c., per dare risposta al quesito sollevato dal Tribunale di Roma all’interno di un ricorso per l’ottenimento della protezione internazionale presentato da un cittadino di un paese terzo (Tunisia) inserito nell’elenco dei paesi di origine sicuri.

Il giudice di merito chiedeva alla Corte di cassazione di chiarire se il giudice ordinario avesse titolo per disattendere il decreto ministeriale nella parte in cui stabiliva la designazione di paese sicuro e dunque valutare, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria ed eventualmente anche in caso di mancanza di contestazione, sulla base di informazioni sui paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, se il paese incluso nell’elenco sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia.

Il dubbio interpretativo rivolto alla Corte di cassazione nasceva dalla constatazione, esternata dal giudice del rinvio, che il complesso contesto normativo, eurounitario e nazionale, era stato oggetto di controversa interpretazione, non solo all’interno del giudizio, ma più in generale anche fra le diverse sezioni distrettuali specializzate e di diversi collegi delle stesse sezioni specializzate.

In questa prospettiva, il Tribunale capitolino evidenziava che l’incertezza appena rappresentata aveva trovato ulteriore implicita conferma in alcuni passaggi motivazionali espressi dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 11399/24, anch’essa resa in sede di procedura di rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Bologna, ove si era ritenuto che le «condizioni che legittimano la procedura accelerata e consentono, quale conseguenza, la deroga al principio (generale) della sospensione del provvedimento della Commissione territoriale» devono essere oggetto di «stretta osservanza della possibilità di azione delle deroghe». Specificava, ancora, il giudice del rinvio che “in tale contesto la Suprema Corte, pur ritenendo di non poter «compiutamente affrontare» la complessa questione aveva dato spazio alla possibilità che il giudice, quando il richiedente contesti la natura “sicura” del paese di origine, o anche d’ufficio, debba, «anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria, comunque valutare detta natura, anche in presenza di inserimento del paese negli elenchi contenuti nei decreti ministeriali a ciò destinati (si tratta peraltro di decreti necessitanti di continuo aggiornamento) ».

Da qui le ragioni poste a sostegno della richiesta di rinvio pregiudiziale correlate, dunque, alla diversità di indirizzi interpretativi sulla questione della sindacabilità del d.m. in ordine alla natura “sicura” dei paesi ed alla pluralità di ricorsi sottesi alla medesima questione oggetto del rinvio. Alla necessità di dare risposta ai dubbi di natura tecnico-giuridica si aggiungevano, secondo il giudice remittente, ragioni «anche di opportunità, del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, che appare nella specie estremamente utile al fine di dare indicazioni alle Sezioni specializzate dei Tribunali distrettuali su una questione controversa e relativa ad un numero assai ampio di cause, anche in ordine alla definizione del giudizio interlocutorio avente ad oggetto l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, quando non siano stati invocati motivi personali che permetterebbero di superare, per il singolo richiedente, la presunzione (juris tantum) di sicurezza del paese ai sensi del comma 5 dell’art 2 bis D.lvo n. 25/2008. »

 

2. Inquadramento dell’oggetto dell’indagine.

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La sentenza cui è dedicato il presente scritto esibisce più di uno spunto di interesse per i giuristi sia perché fornisce una chiara individuazione dei presupposti giustificativi del ricorso all’innovativo strumento del rinvio pregiudiziale alla stessa corte di legittimità previsto dall’art.363 bis c.p.c., nonché dei conseguenti esiti applicativi in termini di posizione del principio di diritto applicabile ai fini della risoluzione del giudizio d’origine, sia perché l’oggetto della controversia che ha innescato il rinvio puntava verso una materia dibattuta, divisiva, manipolata anche a fini estranei ad una disamina da svolgersi esclusivamente in confini tecnici. Del primo aspetto, centrale nella ridefinizione del ruolo della nomofilachia e nella attribuzione di mezzi indiretti per la definizione di giudizi di merito ragionevolmente preclusivi della necessità e dell’utilità di ulteriori ricorsi alla sede di legittimità dirà appresso Roberto Conti; pertanto, l’attenzione delle considerazioni che seguono sarà devoluta alla questione centrale dei rapporti tra definizione in via normativa (prima amministrativa e dal 23 ottobre 2024 legislativa) di un antecedente logico-giuridico (la designazione del paese d’origine come sicuro) per la risoluzione di questioni attinenti al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale del richiedente e poteri istruttori, valutativi e decisori del giudice di merito competente. Del resto, la circostanza che lo stesso giudice di merito rinviante abbia avvertito l’apprezzabile scrupolo di acquisire un criterio vincolante per la decisione della causa testimonia la rilevanza, e l’incertezza, del tema. E proprio l’incertezza, seppur declinata sotto il profilo della concorrenza di più linee interpretative difformi, sta alla base della fruizione dello strumento di recente offerto dall’art.363 bis c.p.c. la cui plausibilità è stata attestata dal provvedimento della prima presidente della corte di cassazione che, nel ritenere soddisfatti i requisiti stabiliti dalla norma da ultimo citata, ha al contempo sottolineata l’assenza di precedenti orientamenti di legittimità e la gravità e complessità interpretativa della questione di cui si sta per dire. Aspetti, questi, di cui ha mostrato piena consapevolezza la Procura Generale presso la stessa corte attraverso una esauriente memoria scritta depositata dalla Avvocata Generale cui ripetutamente ha fatto adesivo riferimento la sentenza in esame.

 

3.L’occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 363 bis c.p.c.

Il procedimento principale da cui ha preso le mosse il rinvio pregiudiziale verteva su una materia di frequente ricorrenza e come tale bisognosa di quell’indirizzo chiaro che la corte di cassazione ha finito con l’imprimere. In particolare, il Tribunale di Roma è stato investito dell’impugnazione, da parte di un cittadino proveniente dalla Tunisia, paese definito sicuro dalla normativa vigente al tempo processualmente rilevante, della decisione reiettiva della domanda di protezione internazionale da parte della Commissione territoriale competente. Il provvedimento di rigetto è stato, a propria volta, emesso nell’ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell’art.28 ter del d.lgs.25 del 2008 sotto il profilo della manifesta infondatezza della domanda in quanto proposta da persona proveniente da un paese designato come sicuro dal decreto interministeriale del 7 maggio 2024 e priva dell’allegazione di fondati motivi atti a contraddire tale definizione. Anche nell’impugnazione, accompagnata dalla richiesta in via cautelare della sospensione dell’efficacia del provvedimento della commissione territoriale, non erano state profilate specifiche ragioni relative alla compromissione della posizione individuale del richiedente, essendosi, piuttosto, fatto riferimento alla generale situazione del paese d’origine, quale desumibile da circostanze obiettivamente sintomatiche di un’involuzione in senso autoritario delle istituzioni, con conseguente estensione dei loro effetti pregiudizievoli alla generalità dei cittadini.

 

Il Tribunale di Roma articola il proprio percorso in direzione del rinvio pregiudiziale assumendo come premessa logico-giustificativa il contesto genetico del giudizio, ossia quel particolare procedimento che, in virtù della previsione degli effetti derivanti dall’avvenuta inclusione del paese d’origine del richiedente tra quelli sicuri alla stregua dell’art.2 bis del citato d.lgs.25 del 2008, implica l’utilizzazione di una forma cosiddetta accelerata di definizione dell’istanza. Ora, proprio in questa contrazione procedurale il Tribunale identifica motivatamente una significativa compressione del diritto di difesa: la spiegabile prospettiva, sembra potersi ragionevolmente desumere, è quella dell’aggravamento dell’onere probatorio incombente sul richiedente, solo da assolvere attraverso il superamento della presunzione (seppur relativa) di sicurezza implicata dall’atto normativo. Così impostato lo scenario del giudizio, si rivela del tutto congruo il successivo sviluppo logico della premessa del Tribunale: se l’ostacolo all’accoglimento della domanda va ravvisato nel decreto interministeriale di designazione dei paesi sicuri ed al tempo stesso tale fonte costituisce il parametro decisorio del caso di specie, al giudice va attribuito il compito di intervenire ermeneuticamente sulla stessa, onde coglierne il significato e determinarne il livello di incidenza. In altri termini ciò che occorre è una verifica frontale dell’ambito di efficacia della fonte stessa ed i limiti della sua vincolatività nei confronti del giudice stesso. Lo stesso Tribunale mostra piena conoscenza della fenditura riscontrabile nella stessa giurisprudenza di merito circa i poteri esercitabili in siffatto contesto dal giudice dell’impugnazione, che potrebbe vedersi stretto nella morsa alternativa della sindacabilità, o meno, del testo che designa i paesi sicuri.

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Alla luce di questi dilemma il quesito rimesso alla soluzione della corte di cassazione va così riassunto: se, in ogni caso in cui rilevi, ai fini della pronuncia sulla domanda di protezione internazionale sulla quale sia intervenuta una decisione amministrativa di rigetto in esito ad una procedura accelerata per manifesta infondatezza ai sensi dell’art.28 ter del d.lgs. 25Del 2008,la designazione per decreto ministeriale come paese sicuro di quello d’origine del richiedente, il giudice ordinario sia vincolato a tale designazione ovvero gli spetti di esercitare il proprio ordinario potere istruttorio, affiancato dal dovere delle parti di cooperazione istruttoria e dall’accesso ad informazioni sul paese d’origine aggiornato al momento della decisione. E ciò al fine di valutare se il paese incluso nell’elenco sia effettivamente sicuro alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia, che sussista o meno specifica contestazione sul punto da parte del richiedente.

Sull’ammissibilità del sindacato valutativo si è espressa positivamente l’Avvocata Generale.

L’amministrazione dell’Interno ha rilevato in via generale che l’autorità giudiziaria non può sostituirsi alle valutazioni amministrative, tranne che emergano elementi capaci di denunciare l’irragionevolezza della designazione in quanto contraria al diritto comunitario ovvero siano evidenti ragioni di insicurezza del paese d’origine connesse alla situazione personale del richiedente. Si aggiunge, quanto ai profili di insicurezza per così dire di carattere generale, che il sindacato giurisdizionale trova un limite nell’attendibilità delle scelte amministrative, mentre pieno sarebbe il potere cognitorio del Giudice in ordine alla condizione personale del richiedente.

L’esposizione precedente dovrebbe dar sufficientemente conto della drammaticità istituzionale del quesito-accentuata dal contorno ambientale, spesso venato da interferenze polemiche, nel quale ogni vicenda afferente alla regolamentazione dei flussi migratori finisce con il collocarsi-che inevitabilmente si spinge sul territorio della separazione dei poteri dello stato: più esattamente, e giudicando ex post, si sarebbe potuto spingere se, al contrario di quanto per fortuna accaduto in ragione del lungimirante equilibrio della sentenza, la materia fosse stata contaminata da astratti furori ideologici o da rivendicazioni di supremazia, entrambi nemici delle rigorose caratteristiche del giudizio di legittimità.

Tuttavia, il momento stesso della formulazione del quesito comportava una sua così spiccata attrazione nell’alveo di principi sovranazionali e di schietto contrassegno costituzionale che la sua trattazione non poteva sottrarsi al riferimento ad una ben delineata tavola di valori dai quali era impensabile esulassero sentimenti di genuina solidarietà umana, tutti chiaramente ricompresi nella protettiva capsula della Costituzione stessa. Di questo si ha, come si vedrà, irrefutabile conferma nell’ordito della pronuncia.

 

4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione normativa di paese sicuro in funzione della protezione internazionale.

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La prima preoccupazione da cui è stata avvinta la corte di cassazione è stata quella di reperire il fondamento normativo multilivello cui ancorare il proprio modello decisorio. Operazione immancabile non solo per rendere tecnicamente solida la soluzione del quesito, in adempimento della propria funzione di garanzia dell’uniforme applicazione del diritto oggettivo nazionale e, per diretta ricaduta, del sommo principio di eguaglianza tra i cittadini, ma parimenti necessaria per cogliere e disciplinare i nessi interordinamentali suggeriti dalla materia e necessitanti scelte conformi e compatibili con la prospettiva eurounitaria e con gli obblighi internazionalmente assunti dall’Italia.

A dar risposta a tale preoccupazione la sentenza ha atteso traendo il primo passo dalla dichiarazione dell’inglobamento all’interno della Costituzione (il cui disegno non per caso è acutamente definito “personalista” per la rilevanza assegnata al valore del cittadino in quanto persona) dei diritti dello straniero la cui dignità gli dà titolo a trattamenti solidali ed all’accoglienza, costituenti in via diretta suoi diritti fondamentali. Tra di essi si staglia naturalmente il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica allorquando a tale cittadino sia impedito l’effettivo esercizio nel suo paese delle medesime libertà democratiche garantite in Italia dalla Costituzione.

Lo snodo è brillante e determinante nell’intera economia della sentenza: esso, infatti, crea il raccordo logico preliminare tra la posizione soggettiva dello straniero (del tutto eguagliabile, quanto alla tutela dei diritti fondamentali, a quella del cittadino italiano, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale) e le varie fonti che possano frapporsi alla relativa, piena realizzazione: e naturalmente tra esse, vanno annoverate quelle, sovranazionali o interne, che classificano i paesi d’origine in rapporto alla sicurezza. In particolare, del diritto d’asilo viene rintracciato la sicura sponda internazionale (Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati del 1951) e comunitaria (Direttiva 95 del 2011) ed anche la nozione interna strutturata in termini di protezione sussidiaria e temporanea per chi, pur sprovvisto dei requisiti per essere definito rifugiato, corra rischi di subire gravi danni nel proprio paese. D’altra parte, l’elasticità dell’area di inveramento della protezione internazionale viene felicemente confermata dalla direttiva europea 115 del 2008 che estende le forme tipiche ad ipotesi che gli stati membri ritengano meritevoli per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura.

Ancora una volta la sentenza procede secondo un andamento sillogistico poiché, in perfetta simmetria rispetto alla così delineata condizione giuridica dello straniero, fa discendere una direttamente proporzionale competenza incrementale del giudice nazionale, promosso al ruolo di garante dell’effettività nel singolo caso dei diritti del richiedente asilo che fugge dal proprio paese e cerca legittima protezione nell’ambito dell’Unione europea. Il richiamo all’effettività dei diritti, come contrapposta, per mutuare dall’immaginifica espressione di Rodolfo Sacco, ad un vuoto carattere solamente declamatorio, è argomento finalistico che imbeve di sé l’intera sentenza e ne consolida l’assetto dispositivo finale, dotandolo di un puntello non sradicabile. Non può sembrare antitetica a questa tensione verso la pienezza di tutela degli stranieri che versano nelle condizioni appena descritte l’affermazione secondo cui “Alle istituzioni democratiche e rappresentative, attraverso le quali si esprime la sovranità popolare, spetta il compito di gestire il fenomeno migratorio, disciplinando i flussi anche nei riflessi sulla sicurezza della comunità nazionale, in un quadro di libertà, di giustizia e di cooperazione internazionale fondata sul riconoscimento di valori comuni, assicurando l’efficienza del sistema nazionale di accoglienza e realizzando condizioni materiali di effettiva integrazione di chi ha titolo per restarvi”.

Il passaggio merita di ricevere una particolare riflessione. Per due ragioni principali, entrambe cospiranti verso il risultato di accreditare alla sentenza l’attitudine a soddisfare complessivamente le insistenti aspettative di chiarezza ed autorevolezza che da più e non coincidenti parti attorno ad essa si nutrivano. La prima e preminente consiste nella riaffermazione che la cooperazione internazionale, da attuarsi nel quadro dei valori di libertà e giustizia, fondativi della civiltà di un’esperienza giuridica, debba fondarsi sui cardini dell’efficienza del sistema di accoglienza e sulla conseguente, immancabile aspirazione al risultato della effettiva, vale a dire piena, integrazione delle persone che vi sono ammesse. Viene così spazzato ogni possibile dubbio su consistenza e portata dell’obiettivo fondamentale dell’integrazione intesa quale epilogo dell’accoglienza e non come semplice, stentata eventualità destinata alla perdurante sminuizione della persona e della personalità dello straniero titolare della protezione internazionale. La seconda ragione ha a che vedere con il leale, e davvero mai dubitato, riconoscimento in capo alle istituzioni democratiche e rappresentative della sovranità popolare del compito gestorio del fenomeno migratorio. Va da sé che a determinare la connessione tra le due ragioni non può che ergersi la concreta affermazione, sotto il profilo dell’effettività e pienezza della tutela del richiedente, della dignità della sua posizione, a propria volta frutto dell’applicazione degli indirizzi in materia di immigrazione.

La sequenza razionale della sentenza si dipana attraverso l’approccio alla individuazione della nozione giuridica di paese sicuro alla stregua del diritto europeo e recepita dal legislatore nazionale. Viene così in rilievo l’allegato I alla direttiva europea 2013/32 la quale considera sicuro un paese “se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano e degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Il medesimo allegato illustra anche i criteri corroborativi di tale definizione, attribuendo rilievo alla misura in cui viene offerta la protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti con riguardo alle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari, al rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e, infine, all’osservanza del principio del “non refoulment”. A propria volta gli articoli 36 e 37 della direttiva in parola istituiscono il regime cui deve ispirarsi l’esame delle domande di protezione internazionale, fondato sulla presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese d’origine. Essa può essere efficacemente confutata dal richiedente che adduca gravi motivi attinenti alla sua situazione particolare. La ricaduta di tali disposizioni aventi funzioni di cornice negli ordinamenti interni degli stati-membri è nel senso che su di essi grava il dovere di riesaminare periodicamente la situazione nei paesi designati come sicuri e di consultare, in sede di esame delle singole domande di protezione internazionale, fonti di informazione affidabili, comprese quelle fornite da altri stati-membri e da altre competenti e qualificate istituzioni internazionali (EASO,UNHCR,Consiglio d’Europa,etc.).Nell’adempiere i propri obblighi comunitari l’Italia si avvale, sin dal 2018 della facoltà riconosciutale dalla direttiva 2013/32 citata di designare i paesi sicuri attraverso un decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’Interno e della Giustizia. In sede di conversione nella legge 132 del 2018 del decreto legge 113 dello stesso anno è stata inserita la previsione di cui all’art.2 bis (facente parte della generale previsione dell’art.7 bis) che precisa la nozione di paese sicuro non appartenente all’Unione Europea come quello che, secondo il proprio ordinamento interno, ed in virtù dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, possa dimostrarsi in linea generale e costante estraneo ad atti di persecuzione, di trattamenti inumani o degradanti, pericoli di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale. Valgono anche per il diritto italiano, che li ha espressamente recepiti, i tre indici prima trascritti dall’allegato I della direttiva 2013/32.

L’atto implementativo delle disposizioni generali prima riportate, applicabile in ragione del tempo della sua emanazione alla fattispecie, è il decreto ministeriale del 7 maggio 2024 che comprende la designazione dei paesi in quel momento sicuri: sfugge al perimetro normativo di rilevanza per la sentenza (e, di conseguenza, del presente saggio) il diritto sopravvenuto costituito in particolare dalla legge 9 dicembre 2024 n.187 che ha convertito con modificazioni il decreto legge 11 ottobre 2024 n.145 recante disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela ed assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali.

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Con questo retroterra normativo, che attinge ad una concezione eurounitaria del diritto, la Corte di Cassazione si è misurata nell’assolvimento della propria funzione dirimente il rinvio pregiudiziale.

 

5. Le linee argomentative della sentenza 33398/20224 della corte di cassazione nel conflitto tra espansione e compressione nel conflitto tra possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate con procedura accelerata ed i loro effetti applicativi.

L’incalzare della forza dei vari segmenti integranti la linea di pensiero seguita dalla sentenza non poteva che portare la corte di cassazione a porsi l’interrogativo della rilevanza, nello stretto recinto processuale del caso concreto da cui ha tratto origine il rinvio pregiudiziale, della designazione di un paese come sicuro nell’ottica della delibazione della domanda di protezione internazionale. È del tutto intuitivo, infatti, che a maggiori conseguenze sul piano dell’assetto della generale posizione soggettiva del richiedente derivanti da tale qualificazione debba corrispondere una crescente accuratezza del sindacato giurisdizionale e, ancor prima, un dovizioso soppesamento delle ragioni legittimanti tale attività.

Il più immediato e consistente effetto che ne discende è quello, cui si è prima fatto cenno, dell’abdicazione al rito ordinario proprio del procedimento amministrativo in favore di quello accelerato che, poggiando su una presunzione di affidabilità dell’elenco ministeriale, contamina di un pregiudiziale alone di manifesta infondatezza la domanda di protezione internazionale: questo si risolve in una indiscutibile compromissione delle facoltà difensive del richiedente, esposto, tra gli altri, all’ulteriore rischio dello svolgimento del procedimento addirittura alla frontiera, al dimidiamento dei termini per l’impugnazione del provvedimento di rigetto (che può essere motivato col semplice riferimento alla provenienza dello straniero da un paese sicuro),alla perdurante efficacia dello stesso pur a fronte dell’impugnazione in sede giurisdizionale (fatta salva la concessione dell’inibitoria in quella sede). È allora evidente che, malgrado l’effetto decongestionante degli adempimenti da adottare nella regolamentazione dei flussi migratori cui tende la normativa interna, essa, da un lato causa la compressione delle posizioni soggettive prima delineate, e, d’altro lato, viene promossa al rango di elemento discriminante ai fini dell’accoglimento della domanda in quanto se il giudice dell’impugnazione fosse dispensato o impedito di effettuare una verifica di congruità della designazione non potrebbe che pervenire in forma acritica e meccanica alla conferma della decisione amministrativa. Già questa conformazione in forma automatica e di pura conseguenzialità materiale (censurata di recente dalla Corte Costituzionale in tema di effetti espulsivi dall’ordine giudiziario di magistrati condannati penalmente per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a due anni) renderebbe sostanzialmente apparente la tutela giurisdizionale e di conseguente spoglierebbe del fondamentale attributo dell’effettività dei diritti assicuratigli la condizione giuridica del richiedente la protezione internazionale in Italia. Si tratta di un argomento efficientista e contemporaneamente finalistico che avrebbe potuto dar luogo, in omaggio all’insopprimibile essenzialità del diritto alla tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive sancito dall’art.113 della Costituzione, ad una risposta affermativa al quesito sottoposto in funzione pregiudiziale dal Tribunale di Roma. Ed è difficile dubitare della forza intrinseca dell’argomento di salda radice eurounitaria e costituzionale al tempo stesso. Altrettanto difficile sarebbe immaginare che alla Cassazione possa essere rimasta nascosta una simile via d’uscita. Ma è anche vero che a molti non solo sarebbe potuta sembrare una sorta di scorciatoia argomentativa povera di quelle considerevoli implicazioni istituzionali, in larga parte influenzate da un dibattito fin troppo effervescente svoltosi fuori dalle aule di giustizia ed all’interno di altre, e sistematiche che la gravità della questione a viva voce suggeriva.

Ed in questa consapevolezza la Cassazione non si è sottratta al quesito di cui in questa sede, abbandonando il vellutato linguaggio curiale della sentenza, si vuole riportare con crudezza l’intima dimensione così condensabile: la lista dei paesi sicuri racchiusa nel DM 7 maggio 2024 (in quanto atto logicamente e cronologicamente antecedente alla domanda di protezione internazionale) è verità intangibile che fuoriesce dall’ordinario circuito proprio della delibazione giurisdizionale, sì da ritagliarsi una nicchia di assertività avalutativa che preclude al giudice qualunque forma di controllo critico in sede di cognizione? Ovvero pienezza dell’attività delibativa e critica del giudice e pienezza ed effettività della posizione del richiedente la protezione internazionale costituiscono un’unità logica e sistematica inscindibile la cui preservazione soltanto può garantire il pieno rispetto della normativa sovranazionale ed interna di rango costituzionale? I corollari conseguenti alla speculare adesione all’una o all’altra delle opzioni ricognitive del compito del giudice dell’impugnazione del diniego di protezione internazionale non hanno bisogno di un’analitica esposizione perché a renderne vivida l’importanza basterebbe far ricorso al dilemma se il pieno esercizio dell’attività giurisdizionale in funzione di sindacato in via incidentale della legittimità dell’azione amministrativa le cui radici risalgono alla legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865 (che, come opportunamente ricordato dalla sentenza, le stesse sezioni unite ritengono estensibile anche alle liti tra privati e pubblica amministrazione, oltre che a quelle interindividuali) possa soffrire un così sensibile depauperamento con le deteriori conseguenze di sistema prima indicate.

La Cassazione non ha volto il proprio sguardo altrove e, attraverso un serie di concatenati ed ordinati passaggi motivazionali, ha saputo pervenire ad una soluzione che, senza in alcun modo mortificare, anzi sublimando, la pienezza della funzione di baluardo garantista della giurisdizione, non ha scosso alle fondamenta il sistema di stabilità e tenuta del sistema democratico fondato sulla separazione dei poteri che una non altrettanto meditata scelta avrebbe potuto-anche contro le intenzioni dell’autore-determinare.

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La continuità logica della serrata “ratio decidendi” è tale che anche un’esposizione sommaria non è in grado di farle torto.

Il primo dato, già ragionevolmente valorizzato in tutt’altro che sparute e fragili pronunce di merito, va ravvisato nella sentenza del 4 ottobre 2024 in c 406/2022 con cui la Corte Europea di Giustizia, nello statuire che l’art.37 della direttiva 2013/32 va interpretato nel senso che un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come paese di origine sicuro per il solo motivo che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, fa, tuttavia, salva la possibilità per lo stato-membro di valutare se le condizioni induttive di tale designazione interna in concreto accertate siano atte a mettere in discussione tale indicazione. In particolare, secondo la Corte di Lussemburgo, il diritto dell’Unione osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro ove talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali della designazione enunciate nell’allegato I qui ripetutamente richiamato. La sentenza della Corte ha cospicuamente lambito il terreno processuale-e lo spunto è stato a piene mani colto dalla Cassazione-quando ha affermato che il giudice dello stato membro, adito per l’impugnazione di un provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale, è tenuto a porre a base della propria decisione tutti gli elementi acquisiti agli atti nonché portati a sua diretta conoscenza al fine di accertare se sia occorsa una violazione delle condizioni sostanziali della designazione di un paese come sicuro, benché la violazione stessa non sia stata espressamente fatta valere a sostegno del gravame.

Quest’ultima statuizione ha autorizzato la Cassazione ad indirizzarsi verso la precisa affermazione del potere-dovere del giudice della protezione internazionale di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi atti a indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale, non solo secondo le allegate condizioni personali del ricorrente, ma anche in base alla situazione generale del paese d’origine considerata rilevante. E quella che la stessa in una precedente pronuncia (25311 del 2020) aveva appropriatamente “doverosa potestà” non cessa di essere attiva per il solo fatto che l’inclusione di un paese tra quelli designati come sicuri sia il mero prodotto di informazioni unicamente vagliate in sede governativa.

Del resto, osserva la sentenza oggetto di commento, il DM del 7 maggio 2024 non gode dell’immunità dal sindacato giurisdizionale perché atto politico: tale carattere, proprio dei soli atti posti in essere da un organo costituzionale nell’esercizio della funzione di governo e, quindi, nell’attuazione dell’indirizzo politico, difetta nel provvedimento amministrativo ricognitivo dei paesi sicuri ed adottato in virtù dell’applicazione dei criteri individuati nella citata direttiva comunitaria del 2013.La disconosciuta natura di atto politico del decreto ministeriale ed il suo riconosciuto carattere di atto amministrativo disapplicabile ne consente la giustiziabilità con il connesso corteo di valutazioni giurisdizionali in ordine ai fatti posti a fondamento della designazione di un paese come sicuro. Là Cassazione lucidamente ricusa di cadere nella trappola che esegeti malevoli avrebbero potuto tenderle chiarendo che in ogni caso il giudice non sostituisce le proprie valutazioni soggettive a quelle espresse nel decreto ministeriale ed orienta il proprio accertamento all’esigenza di verificare che il potere risoltosi nella designazione non sia stato esercitato arbitrariamente o in modo incoerente rispetto ai criteri legittimanti l’inclusione di un paese nella lista di cui ci si occupa. Tale controllo rinviene la propria profonda radice giustificativa nel carattere pregiudiziale che ai fini della decisione dell’impugnazione del rigetto della domanda di protezione internazionale riveste la legittimità del decreto ministeriale, qualificato come antecedente logico-giuridico della domanda stessa. Che l’elusione di tale operazione non possa in alcun modo rientrare nella disponibilità del giudice è conclamato dalla circostanza che al suo cospetto viene il diritto costituzionalmente garantito d’asilo. La costruzione della motivazione della sentenza della Cassazione è congegnata secondo il sistema dei cerchi concentrici e della conseguenzialità argomentativa la cui ulteriore espressione sta nella proposizione secondo la quale la designazione di un paese sicuro non soltanto non è, per le ragioni appena esposte, vincolante per il giudice ma non può costituire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di quel paese, sicché la fondamentale indagine giudiziale deve proprio dirigersi verso il territorio delle condizioni che potrebbero attualmente sorreggere la designazione. Il precipitato logico del percorso decisorio del giudice la cui esplorazione istruttoria abbia deluso le aspettative di conferma della designazione come sicuro del paese d’origine del richiedente è, a giudizio della Cassazione, l’esercizio del potere, di stretto carattere processuale, di disapplicazione nel caso concreto del decreto ministeriale nella parte in cui ha incluso lo specifico paese della cui sicurezza si discute nella lista. La diretta conseguenza della disapplicazione dell’atto si riverbera sui suoi effetti dedotti in giudizio, ossia il diniego di protezione internazionale e, in via di priorità logica, la stessa ammissibilità della procedura accelerata, il cui presupposto-la provenienza del ricorrente da un paese sicuro- viene, in seguito alla penetrante indagine giudiziale, caducato. La sentenza ha cura di precisare che per stimolare tale attività di cooperazione istruttoria non può mancare l’onere di allegazione del ricorrente, specialmente adempiuto mediante la presentazione di una domanda oggettivamente qualificabile come di protezione internazionale. In tal caso, il giudice è chiamato ad accertare in concreto la pericolosità anche di solo una zona circoscritta del paese d’origine nonché la ricorrenza di condizioni afferenti al richiedente che, adeguatamente dedotte e dimostrate, circoscrivano alla sua persona la situazione di insicurezza del suo paese d’origine. Nella diretta misura nella quale il giudice pervenga a tale conclusione alla stregua del materiale probatorio comunque acquisito la sua non sarà attività di disapplicazione della fonte normativa ma dichiarativa della completa fondatezza, e del conseguente accoglimento, della domanda del richiedente, come si conviene ad un ordinario processo di cognizione piena.

A conclusione di questo compatto itinerario motivazionale così suona il principio di diritto formulato ai sensi dell’art.363 bis c.p.c.:” Nell’ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024 n.158,e alla legge 9 dicembre 2024 n.187,se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro, il giudice ordinario, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all’art.37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale. Inoltre, a garanzia dell’effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l’istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest’ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”.

 

6.Il senso ampio delle conclusioni decisorie.

Lo scandaglio gettato nelle profondità tecniche della sentenza ne ha lasciato affiorare un discreto numero di aspetti che ne esaltano l’idoneità a proporsi come stella di orientamento in un orizzonte prima denso di caligine ed impalpabile. Un conciso riassunto ne consente l’enumerazione quanto ai vuoti riempiti ed alle lacune interpretative colmate. Nell’ordine si segnala la necessità della lettura giudiziale della lista dei paesi sicuri in senso dinamico, vale a dire non ossificato al momento della sua emanazione e, pertanto, necessitante la rivalutazione alla luce della situazione in concreto registrabile al momento della decisione sulla richiesta di protezione internazionale nel paese d’origine del ricorrente in ordine alle garanzie di rispetto dell’assetto democratico e di correlata tutela dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. Egualmente è da dirsi con riguardo alla chiaramente affermata esigenza dell’esame da parte del Giudice di tutte circostanze che possano provocare un negativo impatto sulla persona, la sua sicurezza, le sue libertà essenziali. Ora, questa rasserenante prospettiva è, a propria volta, il diretto risultato di una duplice ricostruzione del sistema della protezione internazionale in chiave comunitaria e domestica lodevolmente effettuata dalla Cassazione. In primo luogo, infatti, si è escluso il carattere vincolante dell’elenco dei paesi sicuri per il Giudice dell’impugnazione del provvedimento di diniego della protezione chiesta dal cittadino straniero e si è, di conseguenza, riespanso un autonomo potere valutativo indirizzato verificare se le risultanze istruttorie largamente acquisibili in una diffusa logica di cooperazione istruttoria valgano a sostenere la plausibilità e la permanente legittimità della scelta originaria di inclusione di un paese terzo tra quelli sicuri. Il riconoscimento del potere rivalutativo in sede giurisdizionale si prefigge l’obiettivo di garantire al richiedente la piena effettività della tutela di quegli stessi diritti fondamentali che la nostra Costituzione-in questo assolutamente assecondata dal diritto eurounitario-attribuisce ai cittadini italiani e, collateralmente, a conseguire l’ottenimento dell’asilo. Ed infatti, la l’esercizio del potere sindacatorio mira all’esito della caducazione nel caso concreto del provvedimento amministrativo del quale sia stato dimostrato il disallineamento rispetto alle specifiche condizioni oggettive la cui ricorrenza rende legittima la designazione di paese sicuro. La tecnica della disapplicazione in via incidentale del provvedimento, fedele ad una tradizione ottocentesca mai tramontata, che la Cassazione ha senza indugi sposato, si rivela il mezzo più felice dal punto di vista sistematico. In secondo luogo, la sentenza compie una provvida incursione nel campo processuale consentendo al Giudice, in un certo senso costringendolo, ad allargare non soltanto il materiale probatorio utilizzabile ma anche le modalità di acquisizione. Esse, infatti, possono prescindere dall’allegazione da parte del ricorrente delle circostanze utili al conseguimento dell’ambito bene della vita, ossia la protezione internazionale (ferma, comunque, restando l’esigenza che tale aspirazione venga chiaramente rappresentata). Si assiste, così, ad una rimodulazione costituzionalmente orientata dei poteri istruttori del Giudice, ispirandoli alla finalità di concretizzazione di diritti fondamentali che una concezione asfittica della fase giudiziale dei procedimenti di protezione internazionale allontanerebbe dalla meta. La specialità della materia si riflette, pertanto, secondo il disegno della Cassazione, nella specializzazione delle linee portanti del relativo giudizio: né ostacoli sarebbe stato possibile opporre a questa ariosa prospettiva in considerazione della premessa dichiarata dell’operazione: la garanzia della piena effettività dei diritti riconosciuti in ambito eurounitario al migrante.

Per concludere questa sintetica analisi retrospettiva della sentenza va ricordato che l’intero telaio che attorno ad essa è stato concepito non ha mai disdegnato di perseguire il fine della armonia del sistema, in maniera plateale individuata nella ribadita inalienabilità del potere amministrativo di designazione dei paesi sicuri e nella riaffermata insostituibilità del suo esercizio. Perché il Giudice, nel procedere alla doverosa verifica di legittimità sugli esiti della valutazione effettuata dall’amministrazione, non si surroga ad essa né le usurpa attribuzioni, ma si limita-né potrebbe ometterlo-al controllo dell’esercizio non arbitrario né capriccioso di tale potere.

Ora, proprio quest’ultima osservazione aiuta a formulare un giudizio completo su significato, portata, effetti della sentenza. Per giungere a tale risultato occorre in primo luogo prendere le mosse dal clima e dalle aspettative che circondavano la pronuncia, cui veniva impropriamente affidato il compito di arbitrare una contesa tra poteri dello Stato. Contesa, in effetti, mai nemmeno adombrata per l’intuitiva ragione che l’intima ragion d’essere della giurisdizione è quella di dirimere, con i mezzi propri dell’ordinamento giuridico, controversie, giammai di provocarle, tanto meno in funzione antagonista di altri poteri. È evidente la distorsione prospettica che si annida nel pensiero secondo cui l’affermazione del momento giurisdizionale espresso attraverso un provvedimento del Giudice corrisponda nelle intenzioni o negli effetti ad un attentato alle altrui sfere di attribuzioni (e, ove anche in concreto si desse luogo ad una siffatta, temuta ipotesi sarebbe risolutivamente proponibile il conflitto di attribuzioni davanti la Corte Costituzionale). Di questo pericolo di dannoso fraintendimento ha mostrato di essere responsabilmente conscia la Cassazione nella propria ponderata sentenza. Essa non sembra destinata ad esser relegata negli angusti spazi propri dei giudizi esclusivamente tecnici, magari spogli di un intento animatore. Ed invero, la pronuncia assolve una funzione che nelle sue più elevate manifestazioni è immanente nelle giurisdizioni di vertice dei sistemi di common law, quella di additare con chiarezza un orientamento rappresentativo di una “policy”, ossia di un modo di intendere l’ordinamento giuridico nel suo complesso e nelle sue molteplici sfaccettature alla luce dei principi socialmente accettati e secondo lo spirito del tempo. E non di abusiva interpretazione del proprio ruolo si tratta, ma di un modo di ravvivare il diritto accostandolo alla realizzazione dei valori alla cui tutela esso è preposto, a partire da quelli di matrice costituzionale. E dato che la materia cui sono dedicate queste riflessioni è quella dei diritti umani, val la pena rievocare il pensiero del compianto Lord Bingham of Cornhill, autentico paladino del liberalismo giudiziario inglese, che nella sua opera finale dedicata alla Rule of law enfaticamente proclamava la necessità che gli ordinamenti giuridici (non solo quelli della famiglia anglo-americana) dovessero assicurare adeguata tutela ai diritti umani fondamentali. La chiosa sgorga con naturalezza: a tale ambizioso traguardo non possono che cospirare operazioni di “policy” quale quella meritoriamente compiuta dalla sentenza esaminata che si propone come utile antidoto alle degenerazioni di un dibattito talvolta esondato dagli argini della sana dialettica istituzionale.

 

7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.

La sentenza che si commenta ha fra gli altri pregi quello di avere ancora una volta dissipato i possibili dubbi che aleggiano attorno all’istituto del rinvio pregiudiziale “interno” ed alla sua a volte ventilata vocazione alla sterilizzazione del ruolo del giudice di merito in favore di una prospettiva “cassaziocentrica”, tutta ricamata attorno ad un’immagine verticistica del giudice di ultima istanza che tutto domina in maniera asfissiante all’interno della giurisdizione a scapito del giudice di merito, confinato nell’alveo di un comprimario della giurisdizione, tutto proteso a trovare il bandolo delle matasse, spesso complesse, allo stesso demandate, con un comodo “r-invio” alla Corte della soluzione da adottare.

Già altre volte abbiamo provato ad evidenziare la centralità dello strumento introdotto con la riforma Cartabia nel processo civile sulla via dell’effettività della tutela giurisdizionale e della riconquistata centralità del dialogo fra merito e legittimità, altresì cogliendo i profili di collegamento con il rinvio pregiudiziale “esterno” alla Corte di Giustizia (V., volendo, R. Conti, I rapporti tra rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme Dalla legge 130/2022 alla legge 111/2023, a cura di E. Manzon e G. Melis, Pisa, 2024, 97 ss).

Quel che preme in questa prima riflessione alla sentenza n.33398/2024 sottolineare è la circostanza che il giudice di legittimità, oltre a darsi carico di fornire l’interpretazione del dato normativo interno alla luce dei canoni anche fissati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, indossa i panni di un interprete particolarmente qualificato nel panorama della giurisdizione nazionale chiamata ad occuparsi delle controversie in tema di immigrazione. Questo fa valorizzando il senso ed il significato della sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea resa il 4 ottobre 2024 che, come noto, ha costituito uno dei punti di forte contrapposizione fra politica e magistratura in ordine alla rilevanza delle eccezioni personali ai fini della esclusione della natura sicura del paese di origine. E lo fa riportando i termini del confronto ermeneutico nell’unico campo suo proprio, appunto costituito dall’agorà giurisdizionale, ormai stabilmente popolata da attori che, pur svolgendo diverse funzioni, sono tutti consapevoli del ruolo di ciascuno di essi.

Primo fra tutti il giudice di merito che ha sollevato il rinvio pregiudiziale. Un giudice fortemente responsabile, consapevole allo stesso modo della centralità della sua posizione rispetto al governo della lite innanzi allo stesso pendente, ma altresì conscio delle ricadute che la decisione del singolo caso poteva riprodursi concentricamente tanto sul carico di contenzioso omogeneo pendente nel medesimo plesso giurisdizionale quanto su quello di altre sezioni specializzate sparsi nel territorio nazionale.

Un giudice di merito che, dunque, “decide di non decidere” non già in una defatigante prospettiva, ma al contrario si colloca consapevolmente in un anfiteatro al cui interno potersi confrontare a viso aperto ed in modo diretto che la Corte di cassazione, vista non come austero ed implacabile controllore della correttezza del suo dire, ma come compagno di viaggio “insieme” al quale percorrere un cammino, tracciare una linea, offrire chiarezza, stimolare ragionamenti. Al punto che la soluzione finale scolpita nel principio di diritto è realmente frutto condiviso ed equi ordinato, originato del cooperante sforzo ermeneutico di remittente e decisore finale al quale spetta, per funzione, il compito di mettere a frutto i dubbi, raccogliere gli stimoli del remittente e riportarli a sistema in modo che esso torni utile ad una giustizia capace di mostrarsi tanto efficiente ed efficace quanto “giusta”, a tutti i livelli nei quali viene quotidianamente amministrata.

Tutto questo in un incedere nel quale ragionare secondo i canoni della contrapposizione piramidale nel senso che ci ha consegnato la storia – e che pure viene perpetuato in tempi recenti dal titolo di apertura che compare aprendo il sito internet della Corte di cassazione, indicata come “Il vertice italiano della giurisdizione ordinaria” – deve fare i conti con un tempo presente profondamente modificato, nel quale i nessi di collegamento fra i vari protagonisti della giustizia si avvertono anch’essi soggetti a processi di notevole trasformazione, governati da logiche diverse.

Se si condivide questa prospettiva si ha ragione di comprendere quanto la dimensione verticistica che spesso viene, non sempre in buona fede, rappresentata quando si delinea il ruolo del giudice di legittimità sia destinata inesorabilmente a cedere il passo verso un’altra più realista concezione del ruolo della legittimità, al centro di un crocevia di rapporti istituzionali interni alle giurisdizioni nazionali e sovranazionali che la stessa mostra di governare offrendo un volto tanto cooperante e discorsivo quanto autorevolmente pacificatore, in piena coerenza con una prospettiva pienamente condivisa (a pena di autoreferenzialità sia consentito il rinvio a Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021; La funzione nomofilattica delle Sezioni Unite civili vista dall’interno (con uno sguardo all’esterno), 11 gennaio 2024, apparsi su questa Rivista).

Il provvedimento in rassegna, certo, avvantaggia notevolmente chi predilige la prospettiva qui caldeggiata in ordine alle relazioni fra le Corti, forte di una trama argomentativa sulla quale nulla di più va e può essere aggiunto a quanto rappresentato da Mario Serio.

Ma non può non collegarsi, e non solo per ragioni di ordine temporale, a quel fil-rouge di provvedimenti interlocutori, inaugurato da Cass.n.34898/2024, che lo stesso Collegio della prima sezione civile ha esitato alla vigilia del nuovo anno, questa volta sulla non meno martoriata e limitrofa questione della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro essere effettuata, attraverso un decreto ministeriale, con eccezioni di carattere personale.

 Provvedimenti sui quali non è qui il caso di soffermarsi, se non per coglierne la naturale continuità di senso, l’unicità della prospettiva, l’orizzonte comune al cui interno si collocano, ancorché scolpito da una “non decisione motivata” della Corte di cassazione.

L’apparente ossimoro dell’espressione appena utilizzata, se riferita ad un provvedimento di un giudice di ultima istanza è, infatti, ancora una volta conferma tangibile di quanto il ruolo della Corte di cassazione si dispieghi in triangolazioni sempre più complicate che tendono, anzi, spesso a suggerire figure geometriche ancora più complesse, nelle quali il giudice di legittimità si confronta con diritti viventi interni – provenienti tanto dal giudice di merito quanto dalla Corte costituzionale – e sovranazionali, sempre più animati e vivificati dalla giurisprudenza delle Corti di Lussemburgo e Strasburgo, in un incedere che tende a superare gli angoli e si propone come naturalmente circolare.

 Un orizzonte nel quale il “non decidere” della Cassazione in quella vicenda, nell’attesa della pronunzia della Corte di Giustizia UE, collegato però all’ipotesi di lavoro sulle questioni controversie idealmente consegnata alla Corte di Lussemburgo, si pone in parallelo alla richiesta di rinvio pregiudiziale “interno” del Tribunale di Roma qui commentata e si colloca come momento alto della giurisdizione nazionale non meno di quello espresso con il principio di diritto scolpito da Cass.n.33398/24. Pronunzie che appaiono animate da un profondo senso di “rispetto” verso i compagni di viaggio- le parti del procedimento, il giudice di merito dei provvedimenti impugnati, la Corte di Giustizia UE investita in procedimenti limitrofi di alcune delle questioni controverse – conducendo il giudice di legittimità a mostrare, anche in tale occasione, il suo volto cooperante, tanto dialogante quanto fermo nel voler ribadire il circuito giuridico nel quale i profili controversi devono muoversi.

Un volto che si mostra, dunque, in parallelo con quello del Tribunale capitolino che aveva attivato il rinvio pregiudiziale “interno” nella questione sulla disapplicazione e sui poteri del g.o., tanto quanto quello degli altri giudici di merito che, a loro volta, avevano proposto in autonomia altri rinvii pregiudiziali “esterni”, rivolti alla Corte di Giustizia UE sul tema designazione paesi sicuri- eccezioni personali. Posizioni, queste ultime, di dichiarato ascolto, attento verso gli altri attori della giustizia, tanto quanto di costruttivo apporto di ragionamenti, riflessioni offerte in una prospettiva non decisoria ma, per l’appunto, cooperante.

Tornando dunque al provvedimento qui esaminato emerge la encomiabile “responsabilità” del tribunale remittente, tutt’affatto improntata ad esigenze di placido e deferente ossequio al dictum della Cassazione, qualunque esso sia, ma al contrario consapevole di essere motore propulsivo di una decisione della Cassazione che, fondata sulle questioni messe sul tappeto, avrebbe potuto e dovuto porsi come chiarificatrice di una questione estremamente controversa e divisiva, tanto in ambito giurisdizionale che in agoni sempre più interessati dalla “parola” del giudice su tali temi anche se a fini che qui non interessa indagare.

Orbene, la ricostruzione logico giuridica operata dalla Corte di Cassazione, finemente rappresentata da Mario Serio nei paragrafi precedenti, fissa dei paletti in tema di disapplicazione e di poteri del giudice in tema di protezione del richiedente asilo anche in caso di mancata contestazione della designazione di paese sicuro contemplata dal decreto ministeriale- di questo occupandosi il quesito pregiudiziale- e si inscrive come esempio virtuoso di cooperazione fra giudice di merito, di legittimità e Corte di giustizia UE che dà il senso di quanto sia diventato complesso, articolato e partecipato il diritto vivente del tempo presente.

La Cassazione, pur consapevole dell’interferenza del rinvio pregiudiziale “interno” sollevato dal Tribunale di Roma rispetto all’interpretazione del diritto eurounitario alla quale era indubitabilmente chiamata, con piena consapevolezza esclude la necessità di rinviare a sua volta la questione alla Corte di giustizia, ravvisando nel quadro del diritto vivente del giudice di Lussemburgo elementi di chiarezza tali da giustificare i risultati interpretativi poi espressi nel principio di diritto.

E ciò fa ricavando dal diritto vivente della Corte di giustizia alimento importante al suo ragionamento, al cui interno si fa egli stesso interprete parlante e voce della Corte di giustizia UE. Un lavorio ermeneutico, quello della Cassazione, al quale l’operatore del diritto attento, sia esso o meno giudice dell’immigrazione, non può dedicare un’attenzione epidermica.

Viene in tal modo scritta una pagina importante sulla strada del dialogo costruttivo fra merito e legittimità, capace di dimostrare le potenzialità e la ricchezza del dialogo a distanza voluto dal legislatore della riforma processuale civile con l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione da parte del giudice di merito (art.363 bis c.p.c.). Non già, dunque, per coltivare l’idea della sovra ordinazione piramidale della giustizia, quanto quella della fiducia reciproca e cooperazione che può rendere al meglio i suoi frutti se si approfondiscono in una chiave di crescita comune le conoscenze tanto delle tecnicalità giuridiche quanto dei rispettivi ruoli di sostanza svolti all’interno della giurisdizione.

In conclusione, lo strumento del rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione si conferma costituire strumento di grande utilità per rafforzare il legame ed il dialogo fra merito e legittimità, facendolo forse definitivamente uscire dalle sacche aride di un suprematismo giudiziario della Cassazione sul merito che è ormai la storia ad avere definitivamente emarginato, ponendo il giudice di legittimità in un circuito a sua volta condensato da spinte interne e sovranazionali che possono essere messe a profitto solché tutti i protagonisti si orientino verso un esercizio della giurisdizione sempre più carico di contenuti, sempre più cooperante e collaborativo, al netto delle caratteristiche proprie di ciascun attore della giustizia che rimangono e devono rimanere inalterate.

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