Formidabili, quegli anni. Quelli del boom economico, tanto intenso da essere chiamato “miracolo”. La lunga stagione, dal dopoguerra al 1963, in cui il Pil dell’Italia cresce in media del 5,9% all’anno, con un picco dell’8,3% nel ’61. Il tempo scandito dall’intraprendenza, dalla voglia di fare e di crescere, da una diffusa speranza nel miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Un periodo cui vanno, da qualche tempo, pensieri e ricordi, una certa nostalgia canaglia, un desiderio, velato di malinconia, di ritorno a quando si stava peggio e ci si impegnava a lavorare, produrre, inventare, cambiare.
Senza cedere al retrogusto dolciastro dell’amarcord (solo l’ironia di Fellini, memore dell’affilata intelligenza critica di Ennio Flaiano, poteva farne un capolavoro di film), vale comunque la pena ripensare a quegli anni per ragionare, oggi, su come rimettere in campo energie creative e produttive, per cercare di affrontare efficacemente un tempo di radicali e travolgenti cambiamenti economici, politici e sociali.
Per averne una dimensione esatta, vale innanzitutto la pena leggere le documentate pagine di Nicola Rossi, sapiente economista di solida cultura politica (è stato parlamentare del Pd e oggi è consigliere d’amministrazione dell’Istituto Bruno Leoni, centro della migliore cultura liberale), in “Un miracolo non fa il santo – La distruzione creatrice nella società italiana, 1861-2021”, edito da Ibl Libri.
Si nota, sulla base di dati, fatti e riletture critiche della nostra storia economica, come la crescita italiana degli anni Cinquanta e Sessanta sia stata determinata non solo da lungimiranti scelte politiche internazionali e interne (il Piano Marshall, l’apertura del mercato europeo, le attenzioni einaudiane per la solidità della lira e l’equilibrio dei conti pubblici, gli investimenti della mano pubblica in infrastrutture e industrie di base: energia, acciaio, etc.) ma anche dalla grande libertà lasciata al dinamismo degli imprenditori privati, tanto da trasformare in poco tempo l’Italia in una della maggiori potenze industriali europee.
Le auto Fiat, Alfa Romeo e Lancia, la chimica di Eni e Montedison, i pneumatici Pirelli, la Vespa Piaggio e la Lambretta Innocenti, il cemento Pesenti, gli alimentari Motta, Alemagna, Pavesi, Galbani, Barilla e Ferrero, gli elettrodomestici, i prodotti dell’abbigliamento e dell’arredamento, etc. ne sono testimoni esemplari (i musei e gli archivi d’impresa ne custodiscono e ne valorizzano le storie).
“Distruzione creatrice”, appunto. “Animal spirits” d’un capitalismo diffuso. Cui però – sostiene Rossi – dalla fine degli anni Sessanta in poi, si sono sostituite scelte politiche secondo cui l’Italia “è tornata a proteggere, più che a creare, imprese e ricchezza”, con classi dirigenti che “hanno ristretto lo spazio delle libertà economiche” e protetto, più che l’intraprendenza, la forza e la prepotenza di corporazioni elettoralmente influenti. Quel “miracolo economico” sembra, insomma, “irripetibile”.
Vale la pena discuterne, comunque. Non solo e non tanto per amore di critica storica e per verificare il ruolo negativo di riforme mancate e di scelte di costruzione di fragili e costosi consensi con lo strumento disinvolto dell’aumento del debito pubblico (scaricando, fin dai primi anni Ottanta, sulle nuove generazioni il costo del benessere contingente). Quanto soprattutto per cercare di capire, proprio oggi, in tempi di radicali transizioni (ambientali, tecnologiche, sociali) e di profondi mutamenti geopolitici, quali politiche avviare, quali attori sociali sollecitare per costruire percorsi virtuosi di sviluppo sostenibile. Sostenibile socialmente e cioè accettabile dalle pubbliche opinioni democratiche (senza contrapporre la necessaria tutela dell’ambiente e la conservazione di lavoro e redditi). E sostenibile nel corso del tempo, in grado cioè di determinare lunghi percorsi virtuosi di crescita economica e miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
Negli anni Cinquanta e primi Sessanta c’era fiducia, pensando e lavorando per un tempo che sarebbe stato migliore (nonostante le acute tensioni sociali e le paure legate alla “guerra fredda” tra Occidente e Unione Sovietica). E dunque erano evidenti le disponibilità a investire, risparmiare, indebitarsi, fare sacrifici (per fare studiare i figli, comprare una casa, avviare un’attività, ampliare l’impresa, fondare una rivista o un quotidiano, costituire una cooperativa). Una straordinaria molla di progresso. Un uso accorto e lungimirante del capitale sociale progressivo.
Ecco, oggi è indispensabile proprio ricostruire la fiducia. Stimolare a scrivere “una storia al futuro”. Ricominciare a pensare e a scrivere che, nonostante tutto, c’è uno spazio per la speranza. Con un impegno forte di “ottimismo della volontà”. Di cambiamento. E di rilancio dei valori della democrazia e della cultura d’impresa, d’un mercato aperto, ben regolato e competitivo.
Non certo per caso, speranza, fiducia e rispetto sono tre delle parole più importanti usate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di auguri di fine d’anno agli italiani. C’è “l’urgenza della pace”. Ma anche un grande bisogno di ricucire il tessuto sociale lacerato, di “riorientare” la convivenza civile. È un “patriottismo” mite e civile (la frase è chiarissima: “È patriottismo quello di chi, con origini in altri Paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità”). E dunque è una straordinaria indicazione per il futuro d’una comunità che scarti le trappole degli egoismi e dei nazionalismi e sappia farsi carico dell’importanza di fare vivere, nella storia quotidiana di ognuno di noi, forti valori sociali.
Come? In tempi così difficili, servono certamente le “politiche industriali” e “fiscali” di impronta europea, le scelte tecnicamente sapienti sui conti pubblici in ordine (una garanzia per le nuove generazioni, da sgravare dal fardello del debito e rassicurare con le possibilità di investimenti produttivi di migliore sviluppo) e sulle risposte concrete ai settori industriali e agli ambienti sociali in crisi. Ma, seguendo l’ispirazione di Mattarella, occorre innanzitutto muoversi guardando a un orizzonte più ampio.
Vale la pena, dunque, rileggere un monito di Aldo Moro sulla necessità di una buona politica che contagi e guidi la pubblica opinione: “Questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se non nascerà un nuovo senso del dovere”. E sapere che “speranza” non può essere una parola generica, ma va innervata con scelte sapienti, responsabili, lungimiranti, di un avvenire migliore, guardando concretamente alle nuove generazioni.
L’orizzonte, appunto, è l’Europa, la sua tradizione politica e culturale di conciliazione tra democrazia liberale, mercato e welfare, fra libertà d’intraprendenza e responsabilità d’un destino generale. E proprio adesso che la Ue sembra fragile e ben poco presente nel cuore delle tensioni geopolitiche, minacciata non solo dall’esterno ma anche dal suo interno da dottrine e comportamenti illiberali e populisti, ai suoi valori fondanti è necessario tornare: libertà e sviluppo, democrazia e destino comune camminando insieme. L’Europa come speranza, appunto.
Per le nuove generazioni italiane, una scelta del genere significa puntare sulla formazione, sulla scuola di qualità, sulla ricerca scientifica, sull’innovazione, sulla costruzione di un nuovo e migliore senso di comunità. Valori forti, capitale sociale di “partecipazione” (ecco un’altra delle parole chiave usate dal presidente Mattarella). Perché, se i “miracoli” non sono ripetibili, il declino sociale e politico dell’Europa e dell’Italia non è affatto un destino obbligato. Tutt’altro. Servono “buona politica”, cultura, conoscenza critica, fiducia nei valori di progetti comuni. Ecco, anche in questo, certe esperienze degli anni Cinquanta e Sessanta, sia pubbliche (e cioè politiche e culturali) sia private (l’impresa responsabile, capace di farsi carico di lavoro di qualità e valori di sviluppo) possono ancora dirci qualcosa. Senza cadere nella nostalgia.
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