Quel giorno, precisamente il quinto giorno dell’ottobre di 7 anni fa, chiesi a John Berger un autografo sul suo Capire una fotografia. Attesi l’uscita della maggior parte del pubblico che aveva assistito al dibattito nel Teatro battezzato “Abbado” proprio quell’anno. Impazientemente avanzai nella lunga fila e finalmente arrivato davanti a lui, mentre firmava la mia copia, ebbi solo il tempo di dirgli :«Quanto mi piacerebbe parlare di poesia con lei!». Mi sorrise e rispose: «Un giorno, chissà…».
Ed eccolo il giorno!
«Ricorda John» – una volta gli disse il fantasma della madre – «i morti non rimangono dove sono sepolti, tornano dove sono stati felici da vivi».
«Quindi il tempo non conta e il luogo sì?», domandò John.
«Non un luogo qualsiasi John, è il luogo dove ci si incontra»
Mi vennero alla mente queste parole nell’avvicinarmi al suo tavolino osservandolo nella sua immobilità quasi a voler richiamare l’attenzione. Senza dubbio voleva farsi notare. Voleva proprio farsi notare. Da me.
«È vero avrei dovuto dirti dove ci saremmo incontrati e non un giorno, chissà… » – e mi sorrise nell’ identico modo di quel giorno di ottobre.
La conversazione interrotta 7 anni prima riprese così, naturalmente, grazie al luogo dove eravamo e a dispetto dei tempi, delle età e soprattutto delle provenienze. Colse la mia sorpresa.
«Fin da giovane l’ho sempre vissuta così; ero sempre qualcuno che veniva da un’altra parte», mi disse. Anche oggi in effetti è così.
Quella frase comunque mi precipitò nel giusto mood bergeriano, quello nel quale sempre mi riducevano ( pre-ci-pi-ta-to ) le cose che avevo lette e ascoltate da lui.
D’altra parte è proprio grazie a lui che ho imparato questo: ognuno di noi non proviene da un posto ma da una lingua e dunque si appartiene alla parola più che ad un luogo.
«Allora, avevi detto che volevi parlare di poesia, ebbene? Ti renderai sicuramente conto che parlare di poesia è questione di…sguardi e non di parole».
Come avevo fatto a dimenticarlo! Avevo di fronte…l’uomo che aveva trascorso la sua vita a Guardare e che aveva spiegato a tutti come osservare un’opera d’arte e come da questa veniamo osservati.
Avevo di fronte uno che si era occupato, per tutta l’esistenza, dello sguardo, ricordandoci che «vedere è avere visto» perché la nostra vista (ma potremmo dire ogni nostro senso e dunque ogni pensiero) è allenato da percezioni che si sono man mano stratificate nella specie e nell’individuo e che dunque ci orientano.
Non potevo chiedergli… parole sulla poesia e allora mi rifugiai nelle poesie scritte da lui.
Chiesi al cameriere di portarmi un caffè e tirai fuori dal mio zainetto il libro con le sue poesie.
«Vedi John: hanno raccolto in questo libro, Il fuoco dello sguardo, le tue poesie disseminate nei saggi, nei romanzi, nei racconti e persino nei taccuini con i tuoi disegni che ci hai regalato negli anni trascorsi insieme. Cominciamo da qui? Cosa ne pensi?»
John sfogliò sorridendo le pagine di questo “suo” libro postumo che forse non aveva mai preso in considerazione durante la sua vita e lesse con voce bassa e piana una delle poesie
«In una sacca di terra
ho sepolto tutti gli accenti
della mia lingua madre
riposano lì
come aghi di pino
raccolti da formiche
un giorno il grido malfermo
di un altro vagabondo
potrebbe incendiarli
allora caldo e confortato
tutta la notte sentirà
la verità come una ninnananna
Che dici?» – continuò a voce più alta – «Non mi sembra così pessimistica come mi dissero gli agenti sovietici quando perquisirono i bagagli e sbirciarono nei taccuini durante il mio viaggio in Russia del 1983…».
«No, per niente!» – risposi – «Probabilmente loro si imbatterono in un’altra delle tue poesie e forse proprio qui è il punto, se posso permettermi, della tua poesia…»
«Ma prego, prego dimmi pure. Ti ascolto» – continuò fissandomi.
«La tua poesia emerge. Appare. Sorge…Non ho altre parole per farmi capire. Essa emerge dal…racconto…dal campo di battaglia…dal bosco. Ecco proprio così: la tua poesia emerge come una… radura in un bosco».
Non fu la fronte a corrugarsi ma l’intero viso: le rughe grandi e profonde intorno alla bocca e quelle più piccole che si irraggiavano dai canti laterali degli occhi. Sorrideva con quella espressione di quieta felicità di chi ha fatto un bel giro sulla moto e ha appena tolto il casco per accogliere il luogo che lo accoglieva.
Rassicurato dal suo viso e da un cielo di smalto esaltato dal contrasto con le sfumature pastello del duomo e del campanile, continuai:
«Radure, le tue poesie sono radure. Uno cammina nel bosco del tuo linguaggio e quando avverte quella sensazione spaziale di “smarrimento” o di “ritrovamento”, d’improvviso, la radura, la poesia, appare per restituirlo a un processo del quale smarrimento o ritrovamento sono solo accidenti».
«Bene. Abbiamo detto tutto quello che si poteva dire sulla poesia – disse alzandosi dalla sedia e sistemandosi la sua borsa a tracolla – Ora andiamo a Comacchio ad accogliere le anguille che arrivano dal golfo del Messico».
Probabilmente notò il mio imbarazzo e la mia goffaggine nell’alzarmi dalla sedia per seguirlo. Lo vidi fermarsi vicino un pino piantato in una piccola aiuola lì vicino e piegarsi per guardare qualcosa a terra.
In quel mentre il cameriere mi raggiunse e mi fermò in malo modo. Avevo dimenticato di pagare la consumazione.
«Scusami tanto davvero, mi sono distratto. Ecco ti pago i due caffè», dissi.
«Si vede che sei distratto» – mi rispose lui – «ne hai preso solo uno».
Guardai nella direzione di John e gridai in modo malfermo: «Aspettami John, arrivo». Poi mi rivolsi al cameriere e dissi: «Pagati un caffè sospeso. Ciao e scusami ancora».
Mi voltai per raggiungere John ma lui era scomparso. Guardai in ogni direzione: sul listone, verso via Mazzini, all’imbocco di via San Romano. Niente. John era andato via.
Mi avvicinai all’aiuola dove lo avevo visto l’ultima volta e lì, posati su una sacca di terra, degli aghi di pino richiamarono la mia attenzione. Senza dubbio volevano farsi notare. Volevano proprio farsi notare.
Da me.
Questo racconto è stato pubblicato su La macchina sognante il 31 dicembre 2021
Letture consigliate:
John Berger, Qui, dove ci incontriamo (Here is Where We Meet, 2005), traduzione di Maria Nadotti, Torino, Bollati Boringhieri, 2005
John Berger, La speranza, nel frattempo, con Arundhati Roy e Maria Nadotti, Bellinzona, Casagrande, 2010
John Berger, Capire una fotografia (Understanding a Photograph, 2013), a cura di Geoff Dyer, trad. Maria Nadotti, Roma, Contrasto, 2014
John Berger, Il fuoco dello sguardo. Collected Poems, a cura di Riccardo Duranti, Mompeo (RI), Coazinzola Press, 2015
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