Piaggio Aerospace e il dilemma sulla cessione strategica alla Turchia

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In piena saturazione informativa, l’attenzione generale è stata distratta dagli attentati americani, dalla prossima ascesa di Trump, dal sequestro operato ai danni di Cecilia Sala, inconsapevole vittima di giochi teocratici fin troppo più grandi di lei, come di chiunque. Momento dunque più che favorevole per inserire nel main stream geopolitico le vicende Piaggio, suddivise tra il volo dell’iconica Ape verso l’India, gigante economico refrattario ai vincoli tecnico-ambientalisti europei, dunque idoneo alla produzione del mezzo, ed il passaggio della componente aerospaziale ad un concorrente diretto ed ancora più avulso da contesti comunitari e resipiscenze poco adatte agli investimenti, la Turchia.

Geopoliticamente il quadro che si apre si presta tuttavia a numerose prospettive non prive di interesse, a cominciare dall’economia turca che, seppur in condizioni poco brillanti, non tralascia il settore privato degli investimenti, ancor più rilevanti laddove “santificati” sia pur indirettamente dal patronato governativo, presente con la produzione industriale bellica, degli UAV in particolare. L’inflazione rimane il fenomeno da battere, pur in presenza di una platea di investitori esteri in attesa di evoluzioni politico-economiche, e di chiarimenti del panorama che, alla distanza a Gaza, direttamente in Siria ed in Libia, vedono Ankara sugli scudi. Non è comunque un mistero che la Turchia sia riuscita ad integrare produzione e visione strategica nazionale con una spiccata intraprendenza, anche in termini di R&S, che ha contribuito all’ascesa anatolica sui mercati di settore, con Baykar quale player di riferimento che è riuscito a superare i più recenti ed impegnativi test sul campo, tra Ucraina e Siria. 

Del resto, qualsiasi potenza aspiri ad un ruolo egemonico ancorché regionale, non può disgiungere la competitività economica dalla proiezione militare in chiave interventista; ecco che l’acquisizione della Piaggio assume ancora maggior rilevanza, mentre si avviano peraltro ad esecuzione approvvigionamenti di aeromobili e know how manutentivo a favore della Difesa italiana, pur sfuggendo nell’immediato quali siano state le effettive  motivazioni che hanno condotto ad affidare un’industria storica del comparto tecnologico italiano ad una realtà produttiva estera proiettata alla realizzazione di sistemi di combattimento.

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Gli errori sono stati tanti, troppi e risalgono nel tempo. Piaggio entra in crisi negli anni Novanta e già allora, grazie al fondo statale turco Tushav, si solleva dalle difficoltà finanziarie in un momento in cui Erdogan non è ancora al potere; l’offerta di Ala, composta da un pool di dirigenti Piaggio, viene sopravanzata e nasce così Piaggio Aero Industries. Appaiono sul proscenio diverse altre novità, date dal breve ingresso dell’indiana Tata, dal management di Piero Lardi Ferrari e Josè di Mase, dal ritiro di Tushav nel 2000 per approdare infine ai cavalieri bianchi del fondo emiratino Mubadala. Quel che è certo è che i turchi già da allora hanno idee e progetti più chiari.

Data la situazione, oltre alla successiva uscita di scena araba, Piaggio deve soggiacere all’amministrazione controllata affidata a Vincenzo Nicastro, Carmelo Cosentino e Gianpaolo Davide Rossetti. Ricapitolando a mò di (tragica) telenovela gli eventi, nel 2006 Mubadala acquisisce il 35% di Piaggio Aero Industries; nel 2008 Tata Group diventa proprietaria di un terzo delle quote azionarie Piaggio, diventandone uno dei principali azionisti con Ferrari e Di Mase.

In un’ottica da Golden Power, l’impresa ligure avrebbe meritato maggior fortuna, non disgiunta da una policy aziendale più attenta agli investimenti secondo il paradigma per cui ci si deve aiutare internamente per sperare di essere poi aiutati dall’esterno.

Oggi, autorizzare Piaggio Aero Industries e Piaggio Aviation, le due società in amministrazione straordinaria, a procedere con la cessione alla turca Baykar di tutti i complessi industriali, ha richiesto un appena fuggevole attimo, come del resto parlare solo di droni è comunque riduttivo, stante la qualità degli equipaggiamenti elettronici necessari.

Baykar sa perfettamente di aver acquisito un’impresa certificata a livello aeronautico globale, capace di aprire ancora altri mercati. Piaggio, inoltre, manutiene propulsori aeronautici, aspetto rilevante per la Turchia al momento esclusa dai programmi d’élite occidentali dopo l’acquisto del sistema antiaereo russo S400.

Se una garanzia di relativa stabilità è fornita dal controllo presidenziale turco, un’altra rassicurazione (temporanea) è data dal fatto che quota parte delle azioni dovrà rimanere in mani italiane. Più delicata la situazione dell’indotto aerospaziale nazionale che opera per Piaggio, un melting pot di produttività e competenza rischiosamente in bilico nel possibile ed integrale transito in Anatolia, come accaduto con Beko.

Malgrado l’establishment nazionale ritenga che ci siano rilancio e prospettive, la visione però non è ancora del tutto chiara, dato che la produzione aeronautica civile non sembra portare ad introiti significativi, a differenza di quella militare che attrae molteplici acquirenti tuttavia da valutare politicamente e che, tra l’altro, potrebbero rientrare, almeno in parte, nel paniere di Leonardo.

Se l’entrata di Mubadala è avvenuta a suo tempo senza apparente visione strategica di ampio respiro, Baykar si presenta come un interlocutore di livello a cui però occorre l’alleanza con un rappresentante atlantico per consolidare la credibilità.

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Le prossime fasi non sono comunque da sottovalutare e riguardano, per chiudere l’affare entro marzo, Golden Power, Antitrust e le negoziazioni sindacali.

Preso atto che ora non ci sono realtà produttive nazionali capaci di competere nell’aerospaziale tanto da mantenere l’integrale proprietà in Italia, va sottolineato, in chiave retributiva, che un ingegnere turco non percepisce quanto un paritetico italiano, come le maestranze italiane guadagnano più di quelle turche. Sarebbe il caso di farci attenzione.

Foto: Piaggio Aerospace





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