Il governo Meloni vuole un carcere incostituzionale. E gli altri? –

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Bisogna entrare in un carcere “normale” per capire il degrado in cui si vive 365 giorni l’anno. La politica lo sa ed è consapevole di quanto sia violata l’idea di pena scritta in Costituzione. Eppure è totalmente indifferente, come si vede dal rifiuto aprioristico di ogni provvedimento di amnistia o indulto. Per il governo Meloni questo è un vanto (del resto la Costituzione non è la loro). Ma per gli altri?

di Michele Miravalle da Volere la Luna

Chi osserva il carcere con occhio non assuefatto, come prova a fare l’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, sa che le visite in carcere più complicate sono quelle di agosto e di dicembre. Sono questi i due momenti in cui è più evidente – e dunque, inaccettabile – la distanza tra il “dentro” e il “fuori” e soprattutto tra la pena idealizzata dalle norme e quella materiale, vivente, di carne e sbarre.

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Ad agosto, con il Paese in vacanza, l’ammasso di corpi accaldati e madidi langue senza fare nulla per lunghissime settimane, senza scuola, senza formazione, senza lavoro. A dicembre il non-Natale penitenziario crea rabbia e tensione. La spiacevole sensazione è stata confermata ancora poche settimane fa, durante la visita in una casa di reclusione del basso Piemonte. Alle osservatrici e agli osservatori di Antigone si chiede di visitare sempre le sezioni di “media sicurezza” in cui sono reclusi oltre 50mila delle 62mila persone detenute nelle carceri italiane (le altre 10 mila sono divise invece tra sezioni di Alta Sicurezza e sezioni “a custodia attenuata” per detenute madri o per persone tossicodipendenti, 750 sono al 41bis). Ma è la “media sicurezza” la cartina di tornasole di un sistema complesso e frastagliato.

É in quelle sezioni, più che in altre, che il significato di sovraffollamento diventa tangibile. Certo si deve ragionare a mente fredda sulle statistiche, su come e perché cambi il tasso di sovraffollamento, sul fatto che il Ministero della Giustizia si ostini a calcolare nella capienza regolamentare di 51 mila posti delle carceri italiane anche 4 mila posti che in realtà sono indisponibili o non agibili. Dopodiché occorre rendersi conto, senza retorica, quali effetti ha il sovraffollamento sulla quotidianità detentiva. Per farlo, in quelle sezioni sovraffollate, bisogna starci. Insomma bisogna avere visto, come ammoniva il padre costituente Piero Calamandrei. Vedere, ad esempio, come nel caso di quest’ultima visita, un unico agente venticinquenne aggirarsi solo e spaesato con il mazzo di chiavi dorate, travolto da ogni genere di richiesta da parte di un’ottantina di persone nello spazio pensato per quaranta. Quello che è chiamato in infermeria per il metadone che altrimenti la crisi è dietro l’angolo, quello all’ufficio matricola, il gruppo che deve scendere al colloquio, quello che si è tagliato per la disperazione e ora gocciola sangue, i due che litigano per il sopravvitto e vengono alle mani, quello che non si capacita di come il suo pacco con i vestiti non sia mai arrivato dal carcere dove era prima e da dieci giorni è costretto a pietire mutande e maglioni ai suoi compagni di cella. Questo è il sovraffollamento. In una qualsiasi sezione di media sicurezza, in un giorno qualsiasi. In quelle condizioni nasce l’infame record dei 90 suicidi nel 2024, con la conta già ripartita nel 2025, il 3 gennaio, a Sollicciano, dove si è ucciso un ragazzo di 25 anni. Basta insomma rimanere nel luogo più ordinario del carcere, tra le persone detenute “comuni”, per capire come sia impossibile intravedere la finalità rieducativa della pena evocata dalla Costituzione e richiamata da chiunque parli o scriva di carcere.

Da parte del decisore politico, lasciare le cose come stanno e anzi vederle peggiorare con l’aumento dei numeri del sovraffollamento, può significare due cose, o non sapere oppure sapere, ma accettare. La prima opzione, il non sapere, è, nei fatti, impossibile viste l’enorme mole di studi, pareri, decisioni giurisprudenziali che sul piano nazionale e internazionale affrontano la questione del sovraffollamento e dei suoi effetti. La seconda opzione, l’accettare e dunque volere, è invece l’ipotesi più probabile. È forse arrivato il tempo di ammettere che sul carcere e le pene si è definitivamente persa la condivisione dei valori costituzionali, che univa tradizioni politico-culturali anche molto distanti e che nell’art. 27 trovava una doppia sintesi: il “divieto di trattamenti inumani” e dunque il rispetto della persona, qualsiasi sia il reato commesso e la già richiamata “finalità rieducativa” che renda la pena “utile” non solo a risarcire un danno commesso (a retribuire). All’interno di questi confini costituzionali, le sfumature, gli accenti, le soluzioni normative e gestionali possono essere molto diverse, ma il confine, fino ad oggi, era considerato invalicabile.

Lo è ancora? Insomma, quando il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, in un’orazione ufficiale dice di provare gioia nel non lasciare respirare una persona detenuta esagera soltanto con l’enfasi retorica oppure esprime una precisa volontà politica? L’idea di una pena che produca sofferenza, di un cattivismo atavico radicato nell’uomo che prova piacere e accetta il dolore altrui, non è certo un fatto nuovo del nostro tempo, abituato alla banalità del male. La novità oggi è piuttosto sapere che questo sentimento collettivo travalica il senso comune, la “pancia” di un popolo e rischia di diventare pianificata ragione politica. È questo l’ultimo stadio di quel populismo penal-penitenziario che aleggia da alcuni decenni nel modo di regolare, gestire e comunicare il carcere e la penalità. Sarebbe davvero complicato spiegare altrimenti la sistematica introduzione di nuovi reati o l’inasprimento di pene previste per reati già esistenti, come avvenuto con il c.d. decreto Caivano (che è tra le concause del sovraffollamento negli Istituti penali per minorenni, unico luogo dell’arcipelago penitenziario rimastone finora immune) o con il disegno di legge Sicurezza (Ddl AC 1660), che conia nuovi reati quali l’“occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, la “rivolta in istituto penitenziario” o il “blocco stradale”. Impossibile spiegare altrimenti l’inadeguatezza delle misure di contrasto al sovraffollamento, introdotte da ultimo nel decreto carceri dell’agosto scorso, laddove l’idea più innovativa è stata l’ennesimo “piano straordinario per l’edilizia penitenziaria” con il suo seguito di consulenti, commissari ad acta, finanziamenti di cui chissà quando si vedranno i risultati.

In questo scenario sembra improbabile che il Parlamento possa approvare con la maggioranza qualificata dei due terzi, un provvedimento di clemenza, cioè un’amnistia o un indulto (seppur nelle sue forme più blande, di indulto condizionato e limitato ad alcune categorie di reati). Le 27 amnistie votate nella storia repubblicana (7 quelle concesse nel Ventennio fascista) e i diversi indulti, l’ultimo in ordine di tempo risalente al 2006, sembrano oggi avvenimenti storici non ripetibili. Eppure la Costituzione, all’art. 79, continua a prevederli, seppur con maggioranza aggravata così come stabilito dal 1992, come strumenti “giustificati da situazioni straordinarie o ragioni eccezionali”. Negli anni gli appelli alla clemenza si sono susseguiti e intensificati, “storico” rimase quando di fronte alle camere riunite Papa Wojtyla, il 14 novembre 2002, chiese un “gesto di clemenza”, appello ripetuto anche da Papa Bergoglio in occasione dell’inaugurazione dell’ultimo Giubileo.

Dal 2006 ad oggi è invece prevalsa l’idea che un atto di clemenza collettiva sia una “resa dello Stato”. C’è da domandarsi invece se le condizioni attuali delle carceri italiane siano una vittoria, una medaglia di cui andare orgogliosi. Per coloro i quali credono che i confini costituzionali della pena siano valicabili, probabilmente sì. Ma per tutti gli altri? Davvero oggi la cultura liberale, quella cattolica, i riformisti e le tante sinistre istituzionali e non, si devono rassegnare all’idea che i valori costituzionali – oggi a proposito di carcere, ma domani di scuola, salute, lavoro – siano derogabili?

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