Crisi Stellantis: una strategia industriale distruttiva dietro il fallimento del Sistema Italia. Cassino mai così male

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Stellantis, negli anni ’80, l’Italia era uno dei cuori pulsanti della produzione automobilistica mondiale. Gli stabilimenti Fiat rappresentavano l’apice della capacità industriale europea, un modello di innovazione e produttività.

Oggi, questo glorioso passato sembra un miraggio lontano. Nel 2024, la produzione di autovetture italiane si è fermata a un (deprimente) volume di sole 283.000 unità, con un crollo che ci riporta ai livelli del 1956 (sic). Stellantis, l’azienda che doveva rilanciare il settore dopo l’era Fiat, è ormai il simbolo di un’industria svuotata di contenuti, di una gestione scellerata e di una strategia che ha sacrificato il lungo termine sull’altare del profitto immediato.

La crisi di Cassino: nel 2024 calata la produzione del 45%

E i numeri, almeno nel Lazio, nello storico stabilimento di Cassino, sono da austerity: la produzione è calata del 45% cn i giorni di lavoro dimezzati rispetto al 2023.

Una strategia distruttiva: margini da record, futuro incerto

Sotto la guida di Carlos Tavares, Stellantis ha puntato tutto sull’aumento dei margini di profitto, comprimendo la produzione ai minimi termini e approfittando di ogni picco di domanda per alzare i prezzi delle vetture. Questa strategia, sebbene redditizia a breve termine, ha generato danni strutturali profondi. I margini record di Stellantis, che hanno permesso di distribuire 17 miliardi di dividendi agli azionisti negli ultimi quattro anni, sono stati raggiunti sacrificando intere filiere produttive e mettendo a rischio decine di migliaia di posti di lavoro in Italia.

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La lentezza nell’adozione di modelli elettrici e ibridi ha ulteriormente aggravato la situazione. La Fiat 500 elettrica, che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello della transizione ecologica del gruppo, ha visto un calo della produzione del 70% rispetto all’anno precedente, paralizzando lo stabilimento di Mirafiori. Non va meglio per Maserati, che con appena 2.250 unità prodotte nel 2024 è ormai un marchio che vive di rendita e non di innovazione. Con queste premesse, la retorica del «rilancio» suona vuota, se non offensiva, per i lavoratori italiani e per un’intera nazione che vede sgretolarsi un pezzo della propria storia industriale.

Il fantasma della delocalizzazione

Uno degli aspetti più gravi della gestione Stellantis è l’ossessione per la delocalizzazione. Nonostante le ripetute promesse fatte al governo italiano, la produzione è stata spostata in Nord Africa, Serbia e Polonia, lasciando gli stabilimenti italiani in uno stato di semi-abbandono. Questa politica non solo ha impoverito il tessuto produttivo nazionale, ma ha anche tradito il significato stesso del «Made in Italy», riducendolo a un’etichetta vuota priva di sostanza.

Il caso di Melfi è emblematico. Questo stabilimento, un tempo simbolo di efficienza e produttività, ha visto la produzione crollare del 63,5% nel 2024, con appena 62.080 veicoli prodotti. A confronto, nel 2018, lo stesso stabilimento produceva oltre 339.000 auto l’anno. Gli occupati, che sei anni fa erano 7.400, sono stati progressivamente ridotti, con un pesante utilizzo della cassa integrazione. Questo disastro non è il risultato di una crisi inevitabile, ma di scelte manageriali deliberate che hanno privilegiato il profitto a breve termine rispetto alla sostenibilità del sistema produttivo.

Il silenzio assordante del Governo

Di fronte a questa crisi, il governo italiano ha reagito con una passività che rasenta la complicità. Per mesi, Palazzo Chigi ha intrattenuto trattative con Stellantis, promettendo incentivi e supporto in cambio di impegni di rilancio che non si sono mai concretizzati. Il tavolo negoziale guidato dal ministro Adolfo Urso, definito dai sindacati «virtualmente morto», rappresenta l’incapacità della classe politica di imporre condizioni chiare e vincolanti a un’azienda che ha continuato a beneficiare di sussidi pubblici senza restituire nulla in cambio.

Le promesse di una gigafactory, di un rilancio di Maserati e di una produzione che avrebbe raggiunto il milione di veicoli l’anno entro il 2026, si sono rivelate parole vuote. Persino i sette miliardi di acquisti promessi ai fornitori italiani sembrano un palliativo, incapace di compensare il danno economico e sociale generato dal collasso della produzione nazionale.

I confronti imbarazzanti con i competitor

In tale prospettiva, mentre Stellantis arranca i concorrenti europei prosperano, dimostrando che la crisi non è una questione di mercato, ma di strategia. Il Gruppo Volkswagen, ad esempio, ha registrato una leggera crescita nelle vendite in Italia nel 2024, con un incremento dello 0,4%. Renault, grazie al successo del marchio Dacia, ha segnato una crescita complessiva di quasi l’11%. Questi numeri evidenziano come un’adeguata politica di prodotto e una gestione lungimirante possano fare la differenza, anche in un contesto economico difficile.

In questo scenario, Stellantis sembra un gigante dai piedi d’argilla, incapace di competere nonostante i suoi numeri globali. L’azienda ha perso il contatto con il mercato, puntando su un aumento dei prezzi che ha allontanato i clienti e impoverito la gamma di prodotti. La produzione italiana, ridotta al minimo, non è solo un problema industriale, ma un simbolo di fallimento gestionale e di miopia strategica.

Il peso sociale della crisi

Il dramma di Stellantis non si limita ai numeri. Dietro ogni calo produttivo ci sono lavoratori messi in cassa integrazione, famiglie in difficoltà e intere comunità che vedono svanire le prospettive di sviluppo economico. Secondo le stime del segretario generale della Fim-Cisl, Ferdinando Uliano, 25.000 posti di lavoro sono a rischio tra Stellantis e l’indotto. Senza adeguati ammortizzatori sociali, il 2025 rischia di essere un anno di crisi sociale oltre che industriale.

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Questa situazione evidenzia la totale assenza di una visione politica capace di affrontare la transizione industriale. Mentre altri paesi europei investono in tecnologie verdi e nel sostegno alle filiere produttive, l’Italia si limita a inseguire le promesse di un’azienda che non ha mostrato alcuna reale intenzione di rilanciare il settore.

Un futuro di promesse e illusioni

John Elkann, presidente e CEO ad interim di Stellantis, ha promesso investimenti da due miliardi di euro in Italia entro il 2025. Tuttavia, queste dichiarazioni suonano come l’ennesimo tentativo di guadagnare tempo senza affrontare i problemi strutturali dell’azienda. Il 2026, indicato come l’anno della svolta, sembra un miraggio lontano, con una produzione che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe arrivare a 750.000 unità. Ma anche questo obiettivo appare irraggiungibile senza un cambio radicale di strategia.

Conclusione: il fallimento del sistema Italia

Stellantis non è solo un’azienda, ma il simbolo di un’intera nazione che ha perso la capacità di credere nel proprio futuro industriale. La crisi dell’auto è il risultato di anni di scelte sbagliate, di una classe dirigente priva di visione e di una politica industriale che ha sacrificato il lungo termine sull’altare del profitto immediato. L’assenza di una visione a lungo termine, unita alla mancanza di politiche industriali incisive, ha portato al collasso di uno dei settori che un tempo rappresentava l’orgoglio nazionale.

Le promesse di rilancio sembrano ormai vuote parole, mentre il settore automobilistico italiano si avvicina sempre più al punto di non ritorno. Se l’Italia vuole evitare di trasformarsi in un Paese senza industria, è necessario un cambio di rotta deciso. Il Governo deve smettere di inseguire le promesse vuote di multinazionali interessate solo ai dividendi e iniziare a investire in una politica industriale che metta al centro l’innovazione, la sostenibilità e il lavoro. Stellantis ha tradito l’Italia, ma per l’Italia, è giunto il momento di pretendere un cambio di rotta radicale, prima che l’industria dell’auto diventi un ricordo del passato?

Alberto Frau è professore di Economia e gestione aziendale, ricercatore universitario e scrittore. Collabora con la Luiss Business School e l’Università di Roma “Foro Italico”.



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