Coltivare direttamente le uve per custodire memoria e garantire sostenibilità

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Microcredito

per le aziende

 


Il primo punto del Manifesto del vino buono, pulito e giusto della Slow Wine Coalition ammette aziende con almeno il 70% di uve coltivate in proprio. Perché è una percentuale giusta e cosa comporta.

Il vino è stato a lungo un alimento. A renderlo tale nei millenni è stata la sua funzione collettiva: quella di entrare a far parte delle tavole e delle istantanee conviviali dei popoli forgiando usanze e costumi. E ciò finché la sua produzione non è andata modificandosi nei secoli giungendo all’industrializzazione: la crescita dei volumi e l’omologazione dei sapori hanno trasformato il vino in un mero prodotto commerciale, allineandolo a consumi più ampi e privandolo della propria identità.

E se per tornare a quel senso di collettività, di comunità dispersa, vi fosse bisogno di un’alchimia, di una strategia che invochi un nuovo umanesimo dei sapori – senza disdegnare il presente che abitiamo – allora questa andrebbe ricercata nondimeno nelle produzioni di quelle realtà artigianali che curano il proprio operato dalla terra alla bottiglia. Il Manifesto consapevole della Slow Wine Coalition affronta bene il rapporto che deve intercorrere tra aziende vitivinicole e territori, siglando quel tentativo di esprimere il terroir anche attraverso la tutela della biodiversità dei luoghi, senza dimenticarne la storia e le tradizioni. Lo fa con dieci punti, e il primo è forse il più emblematico e complesso, ma anche il più necessario per entrare a far parte di una visione più attenta del vino.

Le cantine devono coltivare direttamente almeno il 70% delle uve utilizzate per la produzione dei vini. Sono concesse deroghe per alcune zone che per tradizione hanno un ampio commercio di uve, tipo Madeira, Napa Valley, Spagna del Sud, ecc…

Firma anche tu il Manifesto del vino buono, pulito e giusto ed entra a far parte della Slow Wine Coalition!

L’azienda che cura direttamente la coltivazione delle uve riesce a valorizzare meglio in cantina il frutto di un’annata particolare e di un determinato clima, oltre che a dare continuità alla comunità di persone che collabora alla riuscita della produzione, anche nel senso di assicurare la trasmissione delle usanze e delle tradizioni locali.

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E ancora, la produttrice o il produttore che sceglie di impegnare almeno il 70% di uve proprie può attuare pratiche sostenibili in vigna e assicurare il controllo diretto su ciò che avviene circa i trattamenti e la rispettabilità del suolo. Come se cura fosse la parola chiave di queste scelte, il risultato che deriva da tanta minuziosa attenzione è un vino unico, narrante una storia fatta di persone, territori, tradizioni e anche innovazioni. Nelle scelte sostenibili, nelle tutele sul lavoro, e ancora nella realizzazione di prodotti che sappiano identificarsi in uno spazio e in un tempo preciso, ridando un senso affettivo a un alimento che per millenni ha accompagnato le vite delle persone e che, nonostante tutto, continuerà a farlo. E ciò smentendo il principio per il quale per ottenere un risultato credibile, come ultimamente si è detto, basterebbe acquistare o suggerire una determinata tipologia di vino ad aziende specializzate nella sua riproduzione in larga scala.

È invece nella trasparenza e nella tracciabilità delle attività produttive che risiede la credibilità delle produzioni artigianali: in questo circolo virtuoso avere la certezza che il 70% delle uve provenga da vigneti gestiti direttamente dall’azienda è quantomeno un’ulteriore garanzia per il consumatore.

Se ogni vino prodotto deve essere legato al proprio territorio, non basta che le uve provengano dalla zona di riferimento: è invece necessario che almeno il 70% sia coltivato dalla stessa azienda agricola, così da poter conoscere puntualmente ciò che avviene nel percorso dalla vigna alla cantina, fino alla bottiglia. non da ultimo perché in quei territori è meno comune che una sola azienda riesca ad avere cantine adeguate a determinate produzioni –, il che potrebbe non riflettere le reali potenzialità dell’area, penalizzando i piccoli produttori o le aziende che si approvvigionano da vigneti di qualità situati in diverse zone.

La Slow Wine Coalition ci invita a riflettere su questo: la regola del 70% delle uve coltivate direttamente, se applicata pedissequamente, rischierebbe di tradire la complessità e la ricchezza di alcuni distretti viticoli. Il vino è un atto d’amore verso il territorio, è una dichiarazione di appartenenza, una celebrazione della collettività: ecco perché talvolta è fondamentale adottare un approccio flessibile, che non solo rispetti, ma esalti la pluralità di territori geograficamente ampi e storicamente vocati a produzioni collettive.

L’adozione di un modello flessibile che valorizzi la complessità del territorio, promuova la sostenibilità e tuteli i piccoli produttori, senza vincolarli a regole pensate per contesti produttivi diversi, rappresenta insomma l’eccezione che conferma una regola. Quella di chi con il vino non vuole solo vendere un prodotto, ma lanciare un messaggio: che ciò che si produce sia sempre “buono, pulito e giusto”.





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