L’editoriale/ I delicati equilibri della nuova Casa Bianca

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Per comprendere le contraddizioni e la forza che fanno del prossimo governo degli Stati Uniti un esperimento mai tentato prima, può essere utile tornare all’inizio della carriera dell’imprenditore che, più di ogni altro, rappresenta ciò che Silicon Valley è diventata. Quelli che non molti sanno, infatti, è che il più famoso degli immigrati illegali che Donald Trump ha promesso di espellere degli Stati Uniti, possa essere stato proprio Elon Musk. All’inizio degli anni Novanta, l’imprenditore sudafricano iniziò, infatti, la propria fantastica carriera in una condizione che egli stesso definì “grigia” in un’intervista rilasciata qualche anno fa. Arrivato, nel 1992, dal Canada all’Università della Pennsylvania, Elon visse i primi tre anni a sviluppare e raccogliere fondi per la sua prima start up (ZIP2) utilizzando un visto per studenti che non consentiva un’attività imprenditoriale. Interessante è anche il tipo di servizio che gli consentì il primo grande successo. Intuì che le città del mondo erano rimaste pateticamente attaccate ai vecchi stradari fisici (in Italia si chiamavano Tuttocittà) e, invece di rivolgersi ad amministrazioni pubbliche lente, intuì che gli esercenti di attività commerciali sarebbero stati disposti a pagare per pubblicizzare il proprio indirizzo in mappe digitali.

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La storia di Elon Musk racconta quali equilibri difficili dovrà trovare la squadra con la quale Trump proverà ad unire gli opposti: da una parte chi ha accumulato ricchezze senza precedenti accelerando con le tecnologie, un fenomeno che si chiama globalizzazione; e dall’altra chi sul disorientamento da globalizzazione ha saputo trarre consenso politico con la promessa di tornare ad un passato costruito attorno ad un mito uscito da fabbriche abbandonate da decenni.

Sono almeno tre i dossier che possono dividere i due partiti che Trump ha messo insieme.
Il primo ha a che fare con l’immigrazione. È evidente che la capacità degli Stati Uniti di attrarre talento è il vero propellente di un’economia che continua a macinare record: gli amministratori delegati di Nvidia, Tesla, Broadcom, Microsoft e Alphabet, cinque degli otto giganti che stanno costruendo il futuro, non sono nati negli Stati Uniti; ed è dall’India che vengono alcuni dei manager che guidano Silicon Valley. È vero, però, che sono 750 mila gli indiani che risiedono negli Stati Uniti senza documenti secondo il Pew Research Centre. Per i nativisti come Stephen Miller che di Trump sarà il consigliere per la sicurezza nazionale, dovrebbero essere ristretti i visti ed espulsi quelli che non ne hanno. All’opposto, Vivek Ramaswamy, scelto da Trump per il dipartimento dell’efficienza governativa, vorrebbe andare nell’altra direzione riportando alla legalità molti dei connazionali dei propri genitori.

C’è, poi, la questione della transizione energetica. Nella squadra di Trump il nuovo segretario all’energia, Chris Wright, ha dichiarato che essa non esiste. E chi altri, più di Musk, ha costruito sulla potenza di tale trasformazione (e sull’automobile elettrica) il suo successo più formidabile con Tesla? Ci sono nodi che dovranno essere sciolti e tra di essi quello del programma voluto dall’attuale Presidente Biden che ha, invece, investito in progetti sulle rinnovabili che non possono essere lasciati a metà strada.

E, infine, il delicato capitolo Cina e l’approccio al resto del mondo. Una delle promesse di Trump è stata di colpire le importazioni con dazi e Peter Navarro, che ne sarà consigliere, ha già proposto di cancellare l’area di libero scambio con il Canada e il Messico. Una strategia opposta a quella che non può non avere chi nell’ancora più aggressiva Cina produce l’80% dei propri smart phone (come Apple) o metà delle proprie automobili (come Tesla).

Eppure, se sono tre le spinte che possono portare l’amministrazione Trump verso il caos, sono almeno altrettante le dinamiche che potrebbero, al contrario, produrre una convergenza tra portatori di interessi e visioni così diverse.

Sulla assoluta necessità di continuare ad attrarre persone di talento, ma anche immigrati che vadano a riempire posizioni che si stanno svuotando (nelle occupazioni meno pagate), è possibile che si costruisca una politica di apertura che sia selettiva. Capace di esprimere strategia. Persino, di porsi il problema di non svuotare di cervelli altri Paesi.

Sul commercio, possono essere proprio gli interessi delle imprese che hanno disegnato catene di scambi che non si possono spezzare, a far comprendere a chi sostiene di voler fare l’America di nuovo grande, che gli Stati Uniti rimarranno grandi solo se continueranno ad essere al centro di un’economia globale.
E, persino, sulle questioni relative allo Stato, può fare bene interessarsi del dipartimento che eroga servizi essenziali (quello per la salute, ad esempio) a chi – come i partner del venture capitalist Peter Thiel – ha speso una carriera a finanziare le start up che hanno provato a portare le tecnologie in sanità o nelle scuole (spesso senza successo).

Proprio a Trump, il politico più divisivo, toccherà provare a trasformare la diversità in un valore. Se non ci riuscisse si ritroverebbe, come ha più volte lamentato in campagna elettorale, i nemici in casa. Al Presidente eletto servirà passare dalla campagna elettorale permanente ad una riflessione su come mettere insieme le due spinte che hanno, finora, diviso la società americana e quella occidentale.
 

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