La sentenza nei confronti di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Un’analisi critica

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Sommario: 1. L’imperativo categorico dell’imparzialità del pubblico ministero – 2. L’origine del procedimento e lo svolgimento del processo nei confronti di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, titolari del processo Eni- Nigeria – 3. Il quadro normativo di riferimento – 4. Un atto di trasparenza: la nota esplicativa inviata al Procuratore della Repubblica – 5. Un esame critico degli atti trasmessi: il contenuto di un cellulare dell’Armanna ed il procedimento di estrazione dei dati – 6. Ancora sulla documentazione trasmessa: la video registrazione di un incontro – 7. La deposizione del Presidente del collegio che a Milano ha giudicato della corruzione internazionale – 8. La (inesplorata) posizione del principale teste di accusa, Paolo Storari – 9. L’aspetto psicologico

 

1. L’imperativo categorico dell’imparzialità del pubblico ministero

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La norma dettata dall’art. 358 del codice di rito che prescrive al pubblico ministero di svolgere accertamenti anche su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini è segnata da un singolare destino.

Per un verso essa è giustamente considerata una disposizione essenziale all’equilibrio del procedimento penale in quanto mira ad impedire che il potere investigativo degli organi dello Stato – di regola superiore alle capacità di indagine e di acquisizione di elementi di prova della persona indagata – possa tradursi in una iniqua e irrimediabile disparità tra le parti del processo, per effetto del mancato accertamento o dell’occultamento di fatti e informazioni favorevoli alla difesa. 

La norma è la naturale espressione dei doveri di imparzialità e di spassionata ricerca della verità propri del pubblico ministero nella fase delle indagini condotte sotto la sua direzione. 

E che si tratti di un vero e proprio “imperativo categorico” è reso chiaro anche dalla posizione privilegiata che la regola assume nelle disposizioni del codice etico della magistratura relative alle indagini del pubblico ministero. 

Mentre il primo comma dell’art. 13 del codice etico afferma che «il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo», il secondo comma contiene una prescrizione che replica e approfondisce il dettato dell’art. 358 del codice di rito, prevedendo che il pubblico ministero «indirizza la sua indagine alla ricerca della verità acquisendo anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non tace al giudice l’esistenza di fatti a vantaggio dell’indagato o dell’imputato». 

Si è dunque di fronte ad una regola di condotta indiscutibile e vincolante, il cui rispetto è invocato dai difensori nelle concrete vicende processuali e che gli stessi magistrati richiamano costantemente a sostegno della concezione del pubblico ministero come parte imparziale, interessata solo alla ricerca ed al raggiungimento della verità. 

Al tempo stesso, nelle ricorrenti polemiche sul funzionamento della giustizia e nell’annosa querelle sulla separazione delle carriere, la regola processuale ed il canone deontologico sono fatti oggetto, soprattutto da parte dell’avvocatura, di un radicale scetticismo e considerati alla stregua di affermazioni puramente teoriche contraddette nella realtà effettuale. 

Entrambi questi dati – l’indiscusso valore, in termini di principio, della regola codicistica e deontologica e l’insistita polemica pubblica sulla loro pretesa inosservanza e ineffettività – cospirano a rendere particolarmente insidiosa, e in taluni casi potenzialmente schiacciante, un’accusa di violazione che abbia una qualche parvenza di fondamento.

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E’ infatti grande e comprensibile l’inquietudine suscitata dall’ipotesi di un potere inquirente che scelga di ignorare i suoi doveri di imparzialità ed imbocchi la strada delle omissioni o del rifiuto di doverosi atti di giustizia pur di far prevalere nel processo la sua impostazione e le sue tesi. 

In questo contesto – in particolare nei processi oggetto di attenzione mediatica ed al centro di più o meno aspre polemiche – non è sorprendente che una sentenza di condanna di magistrati accusati di aver violato le regole venga accolta favorevolmente da parte della stampa e dell’opinione pubblica. 

Difficile negare che questo vero e proprio riflesso condizionato si sia verificato nel procedimento per rifiuto di atti di ufficio nei confronti di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, conclusosi con la condanna dei due magistrati. 

E però quanti vivono nel mondo del diritto sanno bene che i processi penali non si devono celebrare per ribadire giusti principi, per placare inquietudini, per rassicurare animi turbati, ma per piegarsi, con attenzione, apertura e umiltà intellettuale sulle singole fattispecie concrete, quasi sempre uniche ed irripetibili, e per coglierne la dimensione oggettiva e i profili soggettivi. 

Di qui il dovere di non sentirsi aprioristicamente appagati da una pronuncia di condanna (peraltro accompagnata da feroci aggressioni verbali a mezzo stampa ai due magistrati per i quali «evidentemente» non vale la presunzione di non colpevolezza fino ad una sentenza definitiva) e la necessità di mettere in campo gli strumenti della distinzione, della critica, dello scandaglio psicologico per saggiare il risultato raggiunto nel primo grado di un giudizio particolarmente spinoso ma anche carente e lacunoso

Giudizio nel quale – come si avrà modo di argomentare nel prosieguo di questo scritto – non sembrano essere stati adeguatamente affrontati molti temi cruciali: 

– le caratteristiche oggettive, del tutto peculiari, dei documenti trasmessi che i magistrati imputati hanno ritenuto di non dover depositare; 

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– le modalità con cui tali documenti sono stati portati a loro conoscenza e la fase processuale in cui la comunicazione è avvenuta; 

– la singolare posizione e la complessiva condotta del magistrato che ha inviato i documenti e dato impulso all’accusa; 

– il fisiologico spazio di valutazione proprio del pubblico ministero riguardo alla pertinenza ed alla rilevanza degli atti trasmessi; 

– i margini di opinabilità, sotto il profilo giuridico, dei differenti comportamenti possibili; 

– il grado di trasparenza e di condivisione all’interno dell’ufficio delle decisioni adottate e la possibilità di ipotizzare e provare la natura dolosa del mancato deposito. 

 

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2. L’origine del procedimento e lo svolgimento del processo nei confronti di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, titolari del processo Eni-Nigeria

E’ con l’intento di ragionare su tali questioni che ci si accinge ad analizzare il procedimento nei confronti dei magistrati della Procura di Milano, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, e la sentenza con la quale il Tribunale di Brescia li ha dichiarati colpevoli del reato di cui agli articoli 110 e 328 c.p., per avere omesso il deposito di atti di indagine favorevoli alla difesa nell’ambito del processo per corruzione internazionale, noto come “Eni-Nigeria”, nel quale erano coinvolte, tra gli altri, due compagnie petrolifere europee ed i loro manager apicali.

L’origine del procedimento a carico dei due pubblici ministeri milanesi sta nelle dichiarazioni rese alla Procura della Repubblica di Brescia (competente ex art. 11 c.p.p.) da Paolo Storari, anch’egli magistrato della Procura della Repubblica di Milano, nel corso di interrogatori da questi resi in un procedimento in cui era imputato per rivelazione di segreti di ufficio per avere consegnato a Piercamillo Davigo, all’epoca componente togato del C.S.M., alcuni verbali di interrogatorio secretati[1]

Nel corso degli interrogatori Storari – al fine di giustificare la divulgazione a Piercamillo Davigo dei verbali del procedimento denominato “Eni-Complotto” di cui era titolare – aveva riferito di irregolarità verificatesi tanto nel suo procedimento quanto nel processo per corruzione internazionale “Eni – Nigeria”, in cui l’accusa era sostenuta dai due magistrati poi accusati di rifiuto di atti d’ufficio. 

I due procedimenti, che all’epoca dei fatti (febbraio – marzo 2021) versavano in fasi diverse, l’uno essendo prossimo alla sentenza di primo grado mentre l’altro era in indagini preliminari, presentavano un peculiare profilo di collegamento. 

Il processo “Eni-Nigeria” era stato nel tempo oggetto di tentativi di inquinamento, con iniziative volte a deviarne il corso (in un caso si era avuto persino l’arresto di un magistrato per corruzione, presso altra sede giudiziaria).

Il secondo procedimento – convenzionalmente denominato “Eni-Complotto” – era stato iniziato allo scopo di accertare le responsabilità per tali ipotesi di inquinamento, sotto forma di intralcio alla giustizia, calunnia e subornazione di testimoni. Ed erano stati proprio verbali di interrogatorio assunti in questo secondo procedimento ad essere consegnati da Storari a Piercamillo Davigo. 

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Dunque, Paolo Storari, che ha consegnato a Davigo i verbali secretati del procedimento “Eni-Complotto”, è il magistrato che, nell’ambito di tale procedimento (ed anche in epoca successiva alla consegna dei suddetti verbali), ha raccolto le informazioni e le ha trasmesse ai colleghi De Pasquale e Spadaro, incaricati della conduzione del processo per corruzione internazionale, «sollecitandone» il deposito alle difese. 

La contestazione mossa nei confronti dei due magistrati del pubblico ministero nel processo di Brescia è stata quella di avere omesso il deposito di informazioni idonee «a dimostrare la falsità degli elementi forniti alla pubblica accusa da Vincenzo Armanna, che aveva assunto il ruolo di dichiarante a carico dei principali imputati».

In particolare i due magistrati, titolari del procedimento per corruzione internazionale che al momento dei fatti era nella fase conclusiva del dibattimento, non avrebbero depositato nella segreteria del pubblico ministero, in favore delle difese, documenti acquisiti nel corso delle indagini preliminari del procedimento “Eni-Complotto” ed a loro trasmessi dal loro collega Paolo Storari. Collega che, all’atto della trasmissione, aveva formulato una «espressa sollecitazione ad utilizzare i documenti nel processo mettendoli a disposizione del Tribunale e delle difese[2]» senza che a ciò avesse fatto seguito il relativo deposito da parte dei pubblici ministeri imputati. 

Di qui l’ipotesi accusatoria di indebito rifiuto di atti del proprio ufficio, che per ragioni di giustizia avrebbero dovuto essere compiuti da De Pasquale e Spadaro senza ritardo, «in violazione degli articoli 358 e 430 c.p.p., il cui combinato disposto impone al p.m. indagini, anche favorevoli all’imputato, pur dopo l’esercizio dell’azione penale, dell’art. 73 dell’ordinamento giudiziario[3] e del principio costituzionale del giusto processo che postula l’imparzialità giudiziaria, anche requirente».

Nel capo di imputazione sono stati elencati e descritti in cinque punti gli atti che si era ritenuto di non dover depositare[4].

Nei primi tre punti sono stati menzionati messaggi WhatsApp e Telegram aventi ad oggetto rapporti del dichiarante Vincenzo Armanna (anch’egli imputato nel processo di corruzione internazionale) con testi del processo, da cui emergevano forme varie di subornazione. I messaggi erano stati estrapolati dalla polizia giudiziaria dal telefono cellulare in uso ad Armanna «dopo formale copia forense effettuata ai sensi dell’art. 360 c.p.p.» e portati a conoscenza di De Pasquale e Spadaro come allegati a delle mail inviate da Storari. 

Nel quarto punto (strettamente correlato ai primi tre) è stata riportata una nota della società Vodafone che, escludendo l’appartenenza a due degli apparenti interlocutori di Vincenzo Armanna delle utenze su cui sarebbe intercorso uno scambio di messaggi prodotto nel processo, ne certificava indirettamente la falsità. 

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Nel quinto punto, infine, si è fatto riferimento alla videoregistrazione di un incontro del 28 luglio 2014 al quale erano presenti Vincenzo Armanna, Piero Amara ed altri nel quale Armanna avrebbe espresso propositi ritorsivi nei confronti dei vertici della società per conto della quale aveva lavorato, poi imputati di corruzione unitamente alla medesima società nel processo di corruzione internazionale. 

In definitiva è stato contestato ai due imputati il mancato deposito di atti volti ad inficiare l’attendibilità di un soggetto – Vincenzo Armanna – imputato in quel processo, che aveva rilasciato dichiarazioni etero-accusatorie, così ledendo i diritti di difesa ed impedendo al Tribunale una completa verifica della attendibilità del dichiarante.

Per completezza va ricordato che il processo “Eni-Nigeria” si è concluso dinanzi al Tribunale di Milano nel marzo 2021 con sentenza di assoluzione per tutti gli imputati, con la formula perché il fatto non sussiste, sentenza poi divenuta irrevocabile.

 

3. Il quadro normativo di riferimento

Nel capo di imputazione l’obbligo per i magistrati imputati di depositare presso la segreteria i documenti trasmessi dal collega di ufficio Paolo Storari discende dal disposto degli artt. 358 e 430 del codice di procedura e dell’art. 73 dell’ordinamento giudiziario nonché dal principio costituzionale del giusto processo che postula l’imparzialità della funzione giudiziaria, anche requirente. Ma in ragione della genericità della norma di ordinamento giudiziario e della valenza di principio della norma costituzionale sul giusto processo è sulle norme del codice di procedura che occorre concentrare l’attenzione per ragionare del deposito degli atti e sulla sua doverosità. 

La lettura dei due articoli del codice di rito richiamati nel capo di imputazione rende chiaro che essi si riferiscono ad attività svolte dal pubblico ministero nei procedimenti di cui è titolare. 

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È così per l’art. 358 del codice, secondo cui «il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’art. 326» e cioè per assumere le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. 

E lo stesso vale per l’art. 430 c.p.p. che regola l’attività integrativa di indagine compiuta successivamente all’emissione del decreto che dispone il giudizio, prescrivendo l’immediato deposito della documentazione relativa all’attività integrativa nella segreteria del pubblico ministero. 

Il dovere di svolgere «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagine» (art. 358 c.p.p.) e l’obbligo dell’immediato deposito della documentazione relativa all’attività integrativa di indagine (art. 430 c.p.p.) nascono dunque come regole fondamentali di condotta dei pubblici ministeri da seguire nei procedimenti di cui sono incaricati. 

Procedimenti e processi nei quali il pubblico ministero responsabile della direzione delle indagini, preliminari e integrative, compie ad ogni passo – nello svolgimento degli atti di indagine e nella raccolta degli elementi di prova, anche a favore dell’indagato – valutazioni di rilevanza, di pertinenza, di genuinità, di congruenza dei materiali da utilizzare per le sue determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale. 

Naturalmente – almeno ad avviso di chi scrive – da queste incontrovertibili considerazioni sul significato e sulla portata degli artt. 358 e 430 del codice di procedura non si può desumere che le prescrizioni contenute in tali norme riguardino solo gli atti ed i documenti acquisiti nello svolgimento delle investigazioni dirette dal pubblico ministero nei procedimenti di cui ha la titolarità e non siano estensibili al di là di questa sfera. 

Per l’eccezionale importanza degli interessi in gioco e per la valenza di principio delle norme in discussione, il dovere di imparzialità del pubblico ministero e gli obblighi che ne derivano (acquisizioni a favore della persona indagata e deposito dei relativi atti) non possono essere limitati e circoscritti a fasi del procedimento e del processo ma connotano l’azione della parte pubblica dal momento di avvio delle indagini sino alla conclusione del processo. 

Più precisamente: anche se è opportuno che, per concorrere efficacemente all’accertamento della verità, il pubblico ministero svolga sino in fondo il ruolo di “parte” nell’istruzione dibattimentale, egli ritorna ad essere organo di giustizia e parte imparziale nella formulazione delle conclusioni, quando può chiedere l’assoluzione dell’imputato o calibrare attentamente sulle risultanze processuali le richieste di pena. 

Sarebbe però del tutto irragionevole pretendere che rispetto ad atti e documenti provenienti da fonti esterne al procedimento ed al processo – da altri uffici giudiziari, da uffici amministrativi, da associazioni, da singoli cittadini – il pubblico ministero procedente non abbia quello stesso potere di discernimento e di valutazione che indiscutibilmente gli appartiene nel corso delle indagini. 

Si vuol dire che l’estensione dei doveri di imparzialità del pubblico ministero al di là dell’area delle indagini (preliminari e integrative) deve avvenire tenendo conto delle diversità delle fattispecie e che a fronte di comunicazioni esterne di diversa natura pervenute agli inquirenti, gli obblighi scaturenti dagli artt. 358 e 430 del codice di rito non sono automatici ed incondizionati ma vanno assolti sulla base delle razionali valutazioni del magistrato procedente che è chiamato a vagliare – sotto la sua responsabilità – la rilevanza e la natura giuridica di quanto proviene dall’esterno del suo procedimento.

Ragionare diversamente significherebbe trasformare il pubblico ministero nel tramite passivo di ogni atto o documento a lui trasmesso con l’etichetta di atto utile o necessario all’accertamento della verità e “favorevole” all’imputato. Con l’effetto di esporre ogni processo ad incontrollabili incursioni e manovre perturbatrici o dilatorie. 

Quando poi atti e documenti asseritamente favorevoli all’imputato pervengano al pubblico ministero quando è in corso la fase del dibattimento, il ragionamento sin qui svolto è ulteriormente rafforzato dalla istituzionale posizione di autonomia del magistrato del pubblico ministero in udienza (art. 53 c.p.p. e art. 70, 4 comma O.G.) che lo affranca da vincoli e visti e gli consente di effettuare autonome valutazioni. 

Magistrati accorti e prudenti potranno certo scegliere la via della più piena trasparenza, informando i dirigenti dell’ufficio di Procura dei percorsi seguiti e della posizione assunta; ed è esattamente ciò che – come si dirà meglio in seguito – è accaduto nella vicenda di cui si discute. 

Ma resta che, in sede di dibattimento, il codice non impone né rende indispensabili forme di preventivo confronto all’interno dell’ufficio, rimettendo all’autonomia del magistrato le necessarie valutazioni di merito. 

Una volta chiarito che non sussisteva in capo ai due magistrati titolari del procedimento Eni-Nigeria un obbligo aprioristico ed incondizionato di deposito degli atti a loro trasmessi dal collega d’ufficio, occorre puntare il fuoco dell’attenzione sulle intrinseche caratteristiche della documentazione inviata e sul modo in cui si sono comportati i magistrati che l’hanno ricevuta. 

È infatti dalla natura di tale documentazione e dal modo in cui essa è stata trattata che dipende la sussistenza o meno del fondamento oggettivo dell’accusa di rifiuto del doveroso compimento di atti di ufficio. 

 

4. Un atto di trasparenza: la nota esplicativa inviata al Procuratore della Repubblica

Il Tribunale di Brescia non ha nutrito alcun dubbio che il mancato deposito degli atti trasmessi da Paolo Storari abbia rappresentato una violazione del dovere di trasparenza. 

Nell’ottica del giudice bresciano imputati, difensori e tribunale sono stati privati di elementi di prova necessari per valutare la credibilità di un imputato. 

E ciò è avvenuto per effetto di una deliberata scelta dei pubblici ministeri che, sebbene informati, non avrebbero provveduto al deposito, secondo le forme di legge, di atti favorevoli agli imputati. 

Si tornerà di qui a poco sul contenuto e sulla natura degli elementi di prova di cui sarebbe stato colpevolmente omesso il deposito, così come sul loro procedimento di formazione. 

Un tratto della complessa vicenda va però subito messo in luce. 

Le comunicazioni del febbraio 2021, con cui i pubblici ministeri erano stati sollecitati dal collega a depositare gli atti raccolti nel procedimento “Eni-Complotto”, non erano rimaste senza risposta.

Il 5 marzo, infatti, era stata mandata dai due magistrati imputati una comunicazione formale al Procuratore della Repubblica, ove erano state spiegate le ragioni per cui essi non intendevano procedere al deposito degli atti trasmessi, legate tra l’altro al contenuto degli atti stessi ed alla tempistica processuale. 

Il Tribunale dedica un paragrafo alla descrizione ed al commento di questo passaggio (pag. 99), che fa seguito a due precedenti paragrafi (denominati rispettivamente «il fulmine a ciel sereno» e «la fissanda riunione»), nei quali è descritto – secondo le ambivalenti prospettive dei protagonisti di questa vicenda – quanto verificatosi in quei giorni in ufficio.

Si colgono nella decisione del Tribunale ragionamenti a base congetturale piuttosto fragili, come quando si riferisce che tra il procedimento “Eni-Complotto” ed il processo di corruzione internazionale “Eni-Nigeria” vi fosse un flusso informativo continuo (pag. 95). 

Circostanza, questa, che, oltre a non essere documentata (gli atti passano da un procedimento all’altro sulla base di comunicazioni formali, anche quando si tratta di procedimenti pendenti presso il medesimo ufficio giudiziario), appare logicamente poco compatibile con una situazione di crescente frizione tra colleghi, che il Tribunale colloca per bocca del principale teste di accusa già a partire dal febbraio 2019, ben due anni prima (sempre pag. 95). 

Discutibili congetture sono riproposte anche con riguardo ad una riunione tra i magistrati interessati, che avrebbe dovuto esservi e non si è poi tenuta, sostenendo il Tribunale che gli imputati avrebbero così evitato il confronto con il loro collega «cui certamente questi non si sarebbe invece sottratto» (pag. 101).

È oggettivamente importante, invece, evidenziare come i titolari del procedimento “Eni-Nigeria”, dopo aver ricevuto le comunicazioni del 21 febbraio, avevano dato una risposta formale con una nota del 5 marzo. 

Il Tribunale si sofferma sul contenuto della nota, lamentandone l’incompletezza, in quanto essa sembrerebbe prendere posizione solo su una parte del materiale informativo trasmesso e non su tutto. 

Il Tribunale inoltre censura il fatto che questa nota sarebbe stata trasmessa al Procuratore della Repubblica e all’altro Procuratore Aggiunto titolare del fascicolo, ma non al collega che aveva mandato gli atti (pag. 101).

Tali rilievi critici non colgono la dimensione istituzionale della iniziativa.

La scelta di inviare una comunicazione al Procuratore della Repubblica con cui si giustificavano le ragioni del mancato compimento di un atto processuale nell’ambito di un dibattimento in corso – in cui l’autonomia del Pubblico Ministero è garantita ai sensi dell’art. 53 c.p.p. – rappresentava un atto di assoluta trasparenza all’interno del circuito istituzionale di appartenenza dei magistrati ed è la dimostrazione che essi non si sono mossi in una logica di nascondimento, di occultamento, di autoreferenzialità, non esitando a mettere in chiaro, in un atto formale e nell’ambito di una corretta interlocuzione con i dirigenti del loro ufficio, le motivazioni poste alla base del mancato deposito degli atti a loro trasmessi. 

Per altro verso, l’invio della nota rivelava la preoccupazione di chi, nell’esercizio delle proprie funzioni, coglieva crescenti forme di invadenza (le “sollecitazioni”) da parte di un collega estraneo al processo.

Il mancato deposito degli atti ricevuti dal collega Storari – come si dirà in seguito incompleti, in fieri, privi di ufficialità – non è dunque avvenuto nell’ombra e nel silenzio, né risulta apodittico ed immotivato, ma è stato il frutto di una decisione ragionata, tempestivamente comunicata al vertice dell’ufficio di appartenenza, adottata nell’ambito di valutazioni che non possono non spettare al pubblico ministero. 

Ed è in ragione di questi suoi peculiari aspetti che il mancato deposito non può essere ricondotto, già sotto il profilo oggettivo, alla fattispecie incriminatrice del rifiuto di atti di ufficio, come è stato riconosciuto in casi analoghi di procedimenti per il reato di cui all’art. 328 c.p. riguardanti il compimento di attività giudiziarie in procedimenti collegati[5]

Il Tribunale invece, pur ribadendo giustamente l’esistenza di obblighi di trasparenza e di imparzialità in capo ai pubblici ministeri, non si è affatto posto il problema dei modi in cui tali obblighi potessero e dovessero essere assolti nella situazione data. 

Di conseguenza non ha tenuto conto della singolarità del caso sottoposto al suo esame nel quale non si era di fronte ad una attività integrativa di indagine da parte dei due pubblici ministeri ma ad una trasmissione di atti compiuti in un diverso procedimento penale da parte di un magistrato non incaricato del processo ed ha chiuso sbrigativamente la pagina sull’obbligo di depositare gli atti, sostenendo – in termini apodittici e senza considerare tutte le conseguenze di tale affermazione – che non compete al pubblico ministero la valutazione sulla rilevanza degli elementi di prova raccolti. 

 

5. La disamina degli atti trasmessi: il contenuto di un cellulare dell’Armanna ed il procedimento di estrazione dei dati

Passando all’analisi degli atti trasmessi si rileva che i primi tre punti della contestazione si riferiscono ad informazioni estratte da un telefono cellulare di Vincenzo Armanna[6] con le forme dell’accertamento tecnico irripetibile (art. 360 c.p.p.). 

Si tratta di più file Word con una sequenza numerica denominati «Falsità Armanna» e di una bozza di informativa della Guardia di Finanza che ne esamina il contenuto.

Il dato, riportato nella imputazione e nella motivazione ammesso per pacifico, secondo cui l’estrazione era avvenuta con le forme di cui all’art. 360 c.p.p., appare quantomeno gravemente deficitario.

Effettivamente il telefono di Vincenzo Armanna veniva sottoposto nel novembre 2020 ad accertamento tecnico irripetibile nell’ambito del procedimento “Eni-Complotto”, proprio al fine di verificare la genuinità (o la contraffazione) di informazioni (messaggi, chat, quant’altro) veicolate dall’Armanna e, come di consueto, veniva formata una copia forense su cui la polizia giudiziaria aveva iniziato a lavorare.

Il punto è che, al momento in cui le informazioni estrapolate dal cellulare di Armanna erano state trasmesse ai pubblici ministeri del processo per corruzione internazionale (con le già citate mail del 15 e 19 febbraio 2021), l’accertamento ai sensi dell’art. 360 c.p.p. non era ultimato. 

Al contrario esso era ben lungi dall’essere terminato, in quanto la relazione conclusiva del consulente tecnico sarà depositata soltanto dieci mesi dopo, nel successivo mese di novembre 2021. 

Solo incidentalmente – riportandosi alle dichiarazioni di due testi, il Procuratore della Repubblica di Milano dell’epoca e l’altro Procuratore Aggiunto contitolare della indagine “Eni-Complotto” – il Tribunale riferisce nella motivazione che al momento dei fatti (febbraio 2021) l’accertamento ai sensi dell’art. 360 c.p.p. non era ultimato (pagg. 62 e 65). 

Il tema è rilevante perché, a prescindere da ogni altra considerazione, nel processo si è dato per scontato (e si sono tratte conclusioni da) un fatto che tale non era: le operazioni connesse all’accertamento tecnico irripetibile, contrariamente a quanto sembrerebbe, erano ancora in fase di esecuzione al momento della consegna ai due imputati del materiale informativo.

Al riguardo è legittimo chiedersi se gli esiti di un procedimento probatorio in itinere, rispetto al quale possono essere formulate al più ipotesi provvisorie (in quanto tali suscettibili di conferma come di smentita), debbano assurgere al rango di prova, da cristallizzare come tali in un giudizio. 

Quale che ne sia l’oggetto – una traccia ematica, residui di polvere da sparo, l’autopsia di un cadavere, un congegno meccanico – l’accertamento assume dignità di prova solo nel momento in cui, nel rispetto del contraddittorio tra le parti, il relativo procedimento è terminato.

Non sembra perciò da condividere l’assunto del Tribunale di Brescia, secondo cui il deposito di elementi di prova connessi ad un accertamento tecnico irripetibile non concluso, era senz’altro doveroso. 

Inoltre, va rimarcato che l’omesso deposito di tali dati (degli stessi dati, visto che si parla della estrapolazione dal medesimo cellulare) ha generato epiloghi giudiziari antitetici.

Dinanzi al Gip di Milano ha dato luogo ad un procedimento incidentale (nella cd. indagine “Eni-Complotto”), concluso con il rigetto da parte del giudice della opposizione, promossa ai sensi dell’art. 366 c.p.p. da due indagati avverso il diniego del pubblico ministero, di cui anche la Corte di Cassazione con la sentenza citata ha riconosciuto la legittimità[7].

Dinanzi al Tribunale di Brescia ha portato ad una condanna per rifiuto di atti di ufficio.

Né queste sono le uniche anomalie riscontrabili nella documentazione di cui si discute. 

L’imputazione specifica al punto 2 che le chat indirizzate ai due imputati erano contenute nella “bozza” di una annotazione della Guardia di Finanza. 

Nel caso in esame la “bozza” corrisponde ad un documento in Word, mandato via mail, riconducibile alla Guardia di Finanza, ma senza alcun crisma di ufficialità: uno scambio di documenti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero nello sviluppo delle indagini nel procedimento “Eni-Complotto”. 

Anche in questo caso, dunque, nulla di definitivo. 

E, tuttavia, questo è il documento che viene trasmesso ai pubblici ministeri con la sollecitazione al deposito nel processo per corruzione internazionale. 

Da un passaggio della motivazione traspare l’incertezza metodologica che sta dietro la “bozza” di annotazione, un atto di polizia giudiziaria che non dovrebbe essere «condiviso» preventivamente con il magistrato: altrimenti si finisce per confondere ruoli e responsabilità (così dalla deposizione dell’allora Procuratore della Repubblica di Milano, pag. 62 della motivazione). 

Quali che ne siano le ragioni, in ogni caso, si è ancora una volta dinanzi ad un atto in divenire, per giunta basato sull’esame di elementi di prova non compiutamente definiti. 

E ciò vale anche rispetto all’unico atto che risulta avere un’origine diversa dalle chat di Armanna, il documento di Vodafone sulle utenze apparentemente in uso agli interlocutori del dichiarante. 

Si tratta infatti di un accertamento strettamente correlato al contenuto del cellulare (il subprocedimento ex art. 366 c.p.p., prima richiamato, si inserisce nella medesima vicenda, essendo i promotori dell’opposizione gli stessi soggetti cui si riferisce il documento di Vodafone). 

È chiaro come esso, inerente al medesimo tema di prova ed in uno con accertamenti ancora in corso, non possedeva, neppure per chi aveva trasmesso le informazioni, alcuna autonoma rilevanza dimostrativa, tanto da essere accorpato ad una pluralità di ulteriori notizie e dati.

 

6. Ancora sulla documentazione trasmessa: la video registrazione di un incontro

Il punto n. 5 della imputazione riguarda un video che si assume consegnato agli imputati in epoca molto più risalente (nel 2017) e mai depositato. 

Esso contiene la registrazione di un incontro cui aveva preso parte il dichiarante Armanna il quale, tra le altre cose, aveva indirizzato verso i vertici della società per cui aveva lavorato l’epiteto “valanga di merda”, prospettando dinanzi agli astanti iniziative ritorsive. 

Il mancato deposito, sostiene il Tribunale, avrebbe impedito di cogliere la dimensione della inattendibilità dell’Armanna, sottraendo a difese e Tribunale un significativo elemento di prova.

Si tratta, anche rispetto a questo ultimo profilo della imputazione, di un dato che presenta ampi margini di ambiguità. 

L’esistenza di questo video, sulla base della ricostruzione contenuta nella sentenza, sarebbe emersa nel corso di una udienza del processo per corruzione internazionale nel luglio 2019, per via dell’iniziativa di due avvocati. 

Stando sempre a questa ricostruzione, la trascrizione del contenuto del suddetto video sarebbe entrata nella disponibilità di uno dei legali nel febbraio 2018 (dunque, quasi un anno e mezzo prima), in occasione di un riesame avverso una misura cautelare personale dinanzi all’Autorità giudiziaria di Roma. 

Nella disponibilità del secondo avvocato il video sarebbe invece entrato a seguito del riesame di un decreto di perquisizione e sequestro sempre nel febbraio 2018. Dell’esistenza di tale video era a conoscenza anche una società di consulenza, alla quale la compagnia petrolifera ove lavoravano diverse delle persone coinvolte aveva affidato una indagine forense (pag. 50).

La storia di questo video appare piuttosto tortuosa, essendo stato rinvenuto nel 2015 nell’ambito di una indagine condotta a Torino, poi trasferito a Roma ed infine pervenuto anche a Milano. Si tratta di un dato circolato tra più procedimenti, se è vero che gli avvocati lo hanno ricevuto in contesti diversi. Non è chiaro se la prova sia circolata da un procedimento all’altro nella sua completa estensione (solo la trascrizione, anche il video, una trascrizione parziale); è un fatto, tuttavia, che della esistenza di questo video, come sempre accade quando gli atti vengono depositati (nel caso di specie, più discovery dinanzi a diverse autorità giudiziarie) erano informati in tanti. 

Nel processo di Brescia, il materiale deposito della trascrizione del video è avvenuto proprio da parte degli avvocati della difesa (pagg. 36 e 112).

Il Tribunale di Brescia censura il comportamento dei pubblici ministeri, sostenendo che essi avrebbero «inscenato l’espediente» di accertarsi della possibilità di produrre tale video adducendo la necessità di verificare la sussistenza di impedimenti investigativi, visto che si trattava di atto inserito nel fascicolo del procedimento “Eni-Complotto”, che era in fase di indagini (pag. 113).

Dunque, ai pubblici ministeri è stato contestato di non avere prodotto un documento (video e trascrizione), acquisito dalla polizia giudiziaria in un diverso procedimento penale, che peraltro circolava da tempo, essendo nella disponibilità perlomeno di due avvocati impegnati in quel processo.

Il Tribunale muove dalla rilevanza del contenuto di tale video (in ciò riprendendo considerazioni formulate nella sentenza milanese del processo per corruzione internazionale) per giungere alla conclusione che l’omesso deposito avrebbe impedito una adeguata valutazione dell’attendibilità del dichiarante Armanna. 

Il Tribunale non affronta il tema dei limiti alla circolazione della prova tra diversi procedimenti, bollando come «espediente» la volontà dei Pubblici Ministeri di verificare la ostensibilità del documento, ancorché esso provenisse da diverso procedimento penale, ancora in fase di indagini.

Né tantomeno si interroga, se davvero il video era così importante, sul perché gli avvocati che ne avevano la disponibilità ed erano comunque a conoscenza dell’esistenza di esso, non lo avessero prodotto prima o ne avessero chiesto altrimenti l’acquisizione ai pubblici ministeri. 

Non consta infatti (almeno nei limiti di quanto emerge dalla sentenza) che vi fossero state richieste integrative nella fase conclusiva delle indagini preliminari (art. 415 bis c.p.p.); oppure in udienza preliminare, dove pure degli spazi istruttori sono riservati alle difese (articoli 421 bis e 422 c.p.p.); o, ancora, in sede di richiesta di prove, ai sensi dell’art. 493 c.p.p. 

Ciò che emerge, alla fine, è che due avvocati, entrati in possesso per altra via della trascrizione del video, nel corso della istruttoria dibattimentale hanno posto il problema della sua acquisizione, materialmente provvedendo a depositarla, senza che nessuno abbia poi avuto nulla da ridire sulla sua completezza e genuinità. 

In conclusione sul punto della documentazione che si è scelto di non depositare: il carattere provvisorio ed incompleto degli atti (alcuni scaturenti da accertamenti tuttora in fieri, altri aventi natura di bozza priva di ufficialità) e i problemi potenzialmente nascenti dalla circolazione di atti tra procedure in fasi diverse (le indagini ancora coperte da segreto del procedimento “Eni-Complotto” e la fase finale del dibattimento pubblico del processo “Eni-Nigeria”) hanno indotto i pubblici ministeri a non procedere al deposito “sollecitato” da Paolo Storari, non ritenendosi vincolati dalla diversa opinione del collega. 

Anche chi è convinto della piena legittimità della strada imboccata da De Pasquale e Spadaro e della scelta da loro compiuta, non ha difficoltà a concedere che si versa nella sfera dell’opinabile e del giuridicamente discutibile. 

Ma è certo che l’opzione dei due pubblici ministeri del processo “Eni-Nigeria” è stata argomentata e trasparente, comunicata ai dirigenti della Procura e destinata a rimanere agli atti, il che conferma che essa è stata compiuta nell’assoluta convinzione della sua legittimità. 

Un dato, questo, da tenere presente ai fini delle considerazioni finali che saranno dedicate all’elemento psicologico del reato di cui all’art. 328 c.p. 

 

7. La deposizione del Presidente del collegio che a Milano ha giudicato della corruzione internazionale

Nel corso del dibattimento è stato esaminato il Presidente del collegio dinanzi al quale a Milano era stato celebrato il processo Eni Nigeria, concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati. 

Contrariamente a quanto sostiene il Tribunale di Brescia, i passi della deposizione riportati nella sentenza possono essere letti anche in termini favorevoli agli imputati. 

Il Presidente ha infatti sostenuto che la completa inattendibilità di Vincenzo Armanna era emersa in modo chiaro nel corso della istruttoria, onde le prove di cui sarebbe stato omesso il deposito avrebbero solo potuto agevolare il lavoro dei giudici nel motivare una sentenza di assoluzione comunque già stabilita. 

Nulla di decisivo, dunque, sarebbe stato sottratto al patrimonio conoscitivo di imputati, difensori e giudici, vista la sentenza di assoluzione ed una motivazione in cui non sono mancati severi giudizi sulle propalazioni dell’Armanna. 

Nei cui confronti, del resto, gli stessi pubblici ministeri avevano chiesto una condanna severa: segno, questo, che nessuno riteneva di doverlo premiare o tutelare, sminuendone le responsabilità. 

Ciò detto, le complessive modalità di conduzione del processo bresciano suscitano numerose riserve. 

In dibattimento il Presidente del collegio milanese è stato chiamato a rispondere a domande miranti a illustrare quale sarebbe stato il percorso decisionale “se si fosse saputo che” o “se certi elementi di prova fossero stati depositati”, ed il giudice di Brescia sembra avere tratto argomento di prova da risposte a contenuto eminentemente valutativo su “quale è stato/quale sarebbe stato” il percorso decisionale del Tribunale di Milano nel processo per corruzione. 

Ora, al di là della tenuta logica di un approccio di questo tipo, vi è da dire che una tale prospettiva non è contemplata dal nostro ordinamento. 

L’art. 125, comma 4, c.p.p. dispone che il giudice delibera in camera di consiglio e che «la deliberazione è segreta». 

Secondo un risalente insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione il segreto della camera di consiglio è una particolare specie del segreto di ufficio ed è presidiato dalla regola di cui all’art. 201 c.p.p., onde la dichiarazione resa da chi è tenuto alla osservanza del segreto deve considerarsi inutilizzabile ai sensi dell’art. 191 c.p.p. (Sezioni Unite, n. 22327 del 30.10.2022, Carnevale; conforme sul punto anche Cass., sez. VI, n. 33435 del 4.5.2006, Battistella).

L’esame del Presidente del collegio ha investito anche un altro aspetto della vicenda: l’invio da parte del Procuratore della Repubblica di Milano a quello di Brescia di un fascicolo iscritto a mod. 45 contenente dichiarazioni rese da altro indagato nel procedimento “Eni-Complotto”, che aveva riferito de relato di come il Presidente del collegio avesse anticipato a due avvocati, quando il processo era ancora in corso, l’assoluzione degli imputati. 

Tale circostanza, va subito detto, si è rivelata infondata. Ma la vicenda, oltre a comprensibili risvolti psicologici, ha dato adito ad un giudizio molto negativo da parte del Tribunale di Brescia.

Sulla scia di quanto detto dal pubblico ministero bresciano che ha mosso le accuse ai suoi colleghi, tale iniziativa è apparsa come finalizzata a rimuovere un giudice di cui non ci si fidava.

Gestire una situazione del genere non era certamente semplice e la stessa sentenza dà conto delle diverse ipotesi discusse tra i vari soggetti coinvolti, di fronte ad un verbale di interrogatorio che riportava certe informazioni: ricusazione del giudice, interlocuzione riservata con il Presidente del Tribunale, formazione di un fascicolo a mod. 45, introduzione del verbale nel processo, ovvero ancora non fare nulla astenendosi dal prendere qualsiasi iniziativa. 

Sicuramente una scelta delicata, qualunque essa fosse stata, ognuna recando in sé possibili insidie.

Ma certo è che la spinta motivazionale a liberarsi di un giudice “appiattito” sulle difese resta un’ombra di cui l’unico a parlare è il collega che ha mosso le accuse. Non altri.

 

8. La (inesplorata) posizione del principale teste di accusa, Paolo Storari

Alle considerazioni riguardanti la condizione e le caratteristiche degli atti non depositati deve accompagnarsi l’esame della “provenienza” di tali atti e dunque della peculiare posizione del magistrato che ha trasmesso ai colleghi milanesi gli atti del procedimento “Eni-Complotto”, ancora secretato, di cui era titolare. 

“Oggi” – dopo i processi per rivelazione di segreto d’ufficio nei confronti di Paolo Storari (concluso con una pronuncia di assoluzione) e di Piercamillo Davigo (oggetto di un rinvio da parte della Cassazione alla Corte d’appello di Brescia) – sappiamo che Paolo Storari, titolare del procedimento “Eni-Complotto”, lo ha gestito con un carico emotivo ed un grado di coinvolgimento personale che lo ha indotto a tenere una condotta non lineare. 

Al riguardo basta ripercorrere la sequenza dei comportamenti di Paolo Storari e precisamente: 

– la consegna dei verbali del procedimento “Eni – Complotto” al consigliere Davigo nel periodo marzo–aprile 2020; 

– la trasmissione degli elementi raccolti nel procedimento “Eni-Complotto” ai pubblici ministeri del processo “Eni-Nigeria” posta in essere nel febbraio 2021; 

– la denuncia dei supposti illeciti dei colleghi e del loro comportamento asseritamente omissivo circa un anno dopo, quando era stata già disvelata la consegna da parte sua dei verbali secretati al consigliere Davigo. 

Paolo Storari è così divenuto il principale teste d’accusa nei confronti di De Pasquale e Spadaro, avendo egli dato impulso alle indagini e al tempo stesso fornito i documenti (mail ed allegati) utilizzati per sorreggere l’ipotesi accusatoria. 

Nonostante la centralità del ruolo di Storari nella genesi del procedimento a carico dei suoi colleghi, il Tribunale di Brescia non ha ritenuto di doversi soffermare sulle singolarità e sui tratti impropri della sua condotta, che iniziano dal linguaggio utilizzato nell’interloquire con altri magistrati e dalla pretesa di impartire loro “sollecitazioni”. 

Intendiamoci. E’ del tutto fisiologico che le attività investigative svolte da diversi magistrati ed uffici del pubblico ministero abbiano punti di contatto e/o di possibile attrito, rendendo di volta in volta utile o necessario un coordinamento operativo (artt. 371 e 371 bis c.p.p.), la risoluzione di contrasti di competenza (artt. 54 e ss. c.p.p.), la richiesta o la trasmissione di atti o di informazioni (art. 117 c.p.p.). 

Al tempo stesso quando un magistrato ravvisi violazioni disciplinari o profili di illiceità penale nella condotta di altri magistrati può farle oggetto di denuncia nelle sedi competenti. 

Invece, nei rapporti “orizzontali” tra uffici e magistrati del pubblico ministero diversi, l’espressione “sollecitazione” – utilizzata da Storari e ripresa nel capo di imputazione – non ha alcuna cittadinanza perché tra di loro i magistrati “comunicano” nel rispetto delle rispettive sfere di autonomia tecnica ed operativa e non “sollecitano” altri al compimento di atti di loro competenza.

In ogni caso non è certo la “sollecitazione” a compiere determinati atti proveniente da un collega titolare di un diverso procedimento a far nascere obblighi in capo al magistrato destinatario del messaggio, che conserva intatta la sua autonomia nella gestione del procedimento di cui è titolare e nelle molteplici e complesse valutazioni che tale gestione comporta. 

Ragionare diversamente aprirebbe solo la strada a discutibili interferenze e a confusione di ruoli e di responsabilità tra magistrati assegnatari di procedimenti diversi aventi tra di loro punti di contatto e di collegamento. 

All’improprietà del lessico utilizzato – poi suggestivamente e acriticamente trasfuso nel capo di imputazione – fa da pendant una ulteriore sorprendente circostanza: la denuncia del comportamento asseritamente omissivo dei colleghi De Pasquale e Spadaro e la consegna agli inquirenti di un’ampia messe di documenti del procedimento “Eni-Complotto” sono avvenute nel corso di interrogatori dello Storari per il reato ex art. 326 c.p. e perciò effettuati “dopo” la scoperta della indebita consegna a Davigo dei verbali secretati e quando lo Storari non era più titolare del procedimento. 

Sono stati perciò utilizzati a fini difensivi elementi di un procedimento in corso coperti da segreto, di cui il magistrato ha conservato copia pur dopo la cessazione dell’incarico nella conduzione del procedimento. 

Come tutti sanno, gli atti di un procedimento penale non sono nella libera disponibilità del magistrato incaricato ed ancor meno nella disponibilità di chi, come nel caso di Storari, non sia più titolare del procedimento stesso. 

E’ pertanto legittimo chiedersi come valutare il comportamento del magistrato che, non essendo più investito di un procedimento penale, attinga, conservi ed utilizzi atti coperti da segreto che a tale procedimento afferiscono. 

Ed è necessario porsi alcuni interrogativi sul regime probatorio da riservare agli atti che per questa via sono entrati nel compendio processuale. 

E’ da considerare legittima, e su che base, l’inclusione in un fascicolo di indagine di atti provenienti da altro procedimento penale, coperti da segreto e trasmessi da soggetto non titolato a disporne? 

Sono da considerare «documenti provenienti dall’imputato» (art. 237 c.p.p.), in quanto materialmente consegnati da costui, atti di indagine la cui formazione è avvenuta nello sviluppo di un procedimento penale ancora coperto da segreto?

Da tempo non ha più diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento la regola enunciata nell’antico brocardo male captum bene retentum che esprimeva il disinteresse per modalità scorrette o illecite di ingresso della prova nel processo. 

Al suo posto è subentrata grande attenzione ai canali di ingresso della prova nel processo e la consapevolezza che non vi può essere spazio, nel nostro ordinamento, per prove acquisite attraverso comportamenti non conformi a legge. 

Nel ricostruire e valutare la vicenda processuale il Tribunale di Brescia non affronta nessuno di questi problemi né si misura con il tema della estensione del nemo tenetur e del perimetro entro cui l’esercizio del diritto di difesa è da considerare legittimo. 

Il giudice salda invece la deposizione di Storari con i documenti da lui stesso prodotti, per giungere alla conclusione, emblematicamente racchiusa in un capitolo della sentenza dal titolo «L’asserita inattendibilità del dott. Storari. Irrilevanza», che inimicizie e ragioni di astio personale sono irrilevanti, dovendosi considerare il dato obiettivo del materiale trasmesso e non depositato. 

Per la verità è inevitabilmente aleggiata sul processo la preoccupazione sulla attendibilità del dichiarante, ma il Tribunale, ha creduto di poterla risolvere invocando una sorta di prova di resistenza. 

Nel riferire dell’apporto di Storari il Tribunale di Brescia scrive: «…va da sé che anche qualora, attraverso una controverifica virtuale, si volesse emendare il processo dal contributo conoscitivo offerto da costui con le proprie dichiarazioni accusatorie e circoscrivere l’esame ai soli dati documentali, il compendio probatorio acquisito a carico degli imputati sarebbe comunque in grado di conservare la propria solidità» (pag. 120 della motivazione). 

Ma il lettore attento della sentenza non tarda a scoprire che l’operazione di “sottrazione” delle dichiarazioni di Storari dal compendio probatorio è impossibile perché la motivazione è disseminata di riferimenti e considerazioni, ricostruttive come valutative, in cui non solo la rappresentazione dei fatti ma la stessa terminologia utilizzata dal dichiarante costituiscono il nerbo argomentativo della condanna. 

E ciò mentre non è neppure abbozzato un tentativo di valutazione della deposizione secondo i tradizionali insegnamenti di valutazione della sua genesi, remota o prossima, della sua spontaneità, della sua verosimiglianza, della sua completezza, coerenza logica e ragionevolezza.

 

9. L’aspetto psicologico

Nelle pagine precedenti sono state analiticamente passate in rassegna le ragioni per cui i titolari del processo “Eni-Nigeria” hanno scelto di non depositare gli atti – provvisori e incompiuti – inviati dal loro collega incaricato del procedimento “Eni-Complotto” e si è ricordato come la decisione sia stata argomentata ed adottata in modo trasparente attraverso una interlocuzione con i dirigenti dell’ufficio di Procura. 

È perciò da ritenere che la scelta compiuta rientrasse nella sfera di discrezionalità operativa dei magistrati procedenti e che essi abbiano agito nella assoluta convinzione di operare legittimamente. 

Naturalmente, come ogni decisione anche quella dei magistrati del processo “Eni-Nigeria” può essere non condivisa e criticata, ma, al pari di altre valutazioni che il pubblico ministero è chiamato a compiere nell’ambito del procedimento e del processo, essa rientra nella sfera del giuridicamente opinabile, del tecnicamente discutibile e non è perciò in alcun modo equiparabile, né sotto il profilo oggettivo né sul versante soggettivo, all’ingiustificato diniego di adempimento contemplato nell’art. 328 c.p.

Basta ricordare al riguardo che il giudice di legittimità ha più volte affermato che «ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento “contra ius“, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione» (Cass., VI, sent. n. 36674 del 22.7.2015). 

Sebbene il dolo del reato di cui si discute sia “generico”, il giudice di legittimità ha chiarito che integra la fattispecie prevista dall’art. 328 c.p. solo «l’indebito e colpevole rifiuto nel compimento di un atto dovuto del proprio ufficio… non implicante apprezzamenti discrezionali» (Cass., sez. VI, n. 25547 del 10.3.2022) e che il dolo generico richiesto dalla norma incriminatrice consiste nella «consapevolezza di agire in violazione dei doveri imposti dal proprio ruolo istituzionale» (Cass., sez. VI, n. 33565 del 15.6.2021).

Con questa giurisprudenza, che fissa con rigore logico e giuridico i confini invalicabili della norma incriminatrice e scolpisce i tratti della condotta punibile, il Tribunale non si è adeguatamente misurato, dando per scontato dati che non lo erano affatto, tra cui la circostanza che i documenti trasmessi avessero caratteristiche tali da determinare un assoluto e indiscutibile dovere di deposito. 

Nell’impostazione del Tribunale la vicenda giudiziaria ricca di sfumature ed estremamente complessa sin qui ripercorsa è stata forzatamente semplificata per qualificare una meditata e visibile condotta professionale nel deliberato occultamento di pretesi elementi di prova e poter sussumere l’operato dei magistrati del pubblico ministero nella fattispecie del rifiuto di atti di ufficio. 

Un approdo, questo, che non corrisponde né alla realtà effettuale né alla fisionomia del reato di cui all’art. 328 del codice penale. 

 

La sentenza è consultabile sul sito di Giurisprudenza Penale al link: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2024/11/estratto-sentenza-3178-2024-DE-PASQUALE.pdf 

 

 
[1] Il processo a carico di Paolo Storari è stato definito dinanzi al Gup di Brescia, in sede di giudizio abbreviato, con assoluzione «perché il fatto non costituisce reato» e la sentenza, confermata dalla Corte d’Appello di Brescia, è poi passata in giudicato.

[2] Tutti i virgolettati nel testo nel presente paragrafo sono tratti dal capo di imputazione.

[3] Il riferimento all’art. 73 dell’ordinamento giudiziario, che detta le «attribuzioni generali» del pubblico ministero appare generico e non particolarmente significativo ai fini dell’obbligo di deposito menzionato nel capo di imputazione.

[4] I documenti acquisiti al fascicolo 12333/17 (Eni- Complotto) e ritenuti utili e pertinenti alla valutazione del comportamento processuale e dell’attendibilità del dichiarante/accusatore erano i seguenti: 
1°: messaggi WhatsApp (tra gli altri, quelli del 14 e del 17.12.2019, estratti a cura della polizia giudiziaria dal telefono cellulare in uso ad Armanna dopo formale copia forense effettuata il 13 novembre 2020 ai sensi dell’art. 360 c.p.p. e contenuti negli allegati alle mail del 15 e 19 febbraio 2021) da cui era emerso che Armanna aveva corrisposto 50.000 dollari a due testimoni del processo “Eni-Nigeria” e ne voleva la restituzione una volta appresa l’indisponibilità degli stessi a presentarsi in Tribunale (trattasi in particolare di Timi Ayah – teste a difesa – e Isaac Eke – teste ex art. 195 c.p.p. che avrebbe dovuto confermare le dichiarazioni etero-accusatorie di Armanna, ossia di essersi presentato allo stesso Armanna come “Victor Nwafor” e di aver visto «gli italiani» imbarcare trolley pieni di denaro contante costituente parte del prezzo della corruzione “retrocesso” ad Eni);
2°: chat di Telegram del 14 dicembre 2019 intercorsa tra Armanna e Timi Ayah (estratta dalla p.g. con la medesima procedura di copia forense sopra indicata e contenuta in una bozza di relazione della Guardia di finanza allegata alla mail del 19 febbraio 2021) che, a differenza della copia cartacea prodotta da Armanna al Tribunale in allegato ad un’istanza di rinvio finalizzata a raccogliere la testimonianza di Ayah, era comprensiva degli orari di invio dei messaggi scambiati dai partecipanti, incompatibili con una conversazione realmente avvenuta; chat dimostrativa della contraffazione della versione cartacea prodotta da Armanna al Tribunale e pertanto rilevante nel procedimento Eni Nigeria in punto di attendibilità dell’imputato/accusatore Armanna, in quanto indicativa dell’utilizzo processuale da parte dello stesso Armanna di atti e documenti incontrovertibilmente falsi;
3°: messaggi di WhatsApp intercorsi 1’ 11 e 12 settembre 2019 tra Armanna e Mattew Tonlagha, amministratore della società nigeriana Fenog, in cui il primo istruiva il secondo in vista della sua escussione avvenuta tramite rogatoria interazionale nell’ambito del p.p. 12333/17 proprio il 12 settembre 2019, suggerendogli le risposte da fornire agli inquirenti: «queste sono cosa penso che ti chiederanno», «Claudio Granata era la reale interfaccia di Amara, tutti devono comprendere questo», «è’ importante che tu spieghi agli italiani che Eni ha cercato di fare pressione su di me, forte pressione e tu non ha mai accettato e per questa ragione hanno cancellato il contratto», elementi, questi, idonei a dimostrare la falsità della tesi della subornazione del dichiarante Armanna da parte di Granata e Amara per conto di Descalzi, finalizzata alla ritrattazione delle accuse mosse dal primo contro i vertici Eni in cambio di diverse utilità, tra cui proprio lo sblocco di contratti tra Eni e Fenog, società di cui Armanna era consulente, tesi sostenuta dallo stesso Armanna anche nel corso del dibattimento (messaggi, questi, estrapolati con la procedura di copia forense sopra indicata, contenuti in un’annotazione di P.G. depositata nel p.p. n. 12333/17 il 14 gennaio 2021 e quindi allegati da Storari nelle email poi inoltrate loro dal procuratore Greco in data 15 febbraio 2021 — mentre la chat integrale di WhatsApp tra l’utenza in uso ad Armanna e quella in uso a Tonlagha veniva depositata nel p.p. 12333/17 in data 22 gennaio 2021);
4°: note della società Vodafone – in particolare quelle del 3 e 14 dicembre 2020 — contenute nell’annotazione della Guardia di finanza depositata nel p.p. 1233/17 il 14 gennaio 2021, da cui era desumibile che le chat riportate nella medesima annotazione, apparentemente intercorse su WhatsApp tra Armanna e Descalzi e fra lo stesso Armanna e Granata, nonché quelle intercorse su Telegram tra Armanna e Granata (queste ultime peraltro già depositate in favore delle difese), fossero materialmente e ideologicamente false giacché nel 2013 — anno in cui esse sarebbero transitate – le utenze che vi comparivano non erano in uso ai due manager Eni e non potevano aver generato quel traffico; circostanza da ritenersi rilevante ai fini del decidere in quanto sintomatica di una condotta processuale dell’Armanna tesa ad alterare il quadro accusatorio ed in particolare ad accreditare la tesi, da lui ribadita anche nel dibattimento Eni Nigeria, secondo cui i citati dirigenti Eni erano disposti a riassumerlo – già pochi mesi dopo il suo licenziamento (come si legge in quelle chat) – in cambio della ritrattazione delle accuse mosse contro i vertici dell’ente;
5°: la videoregistrazione di un incontro avvenuto il 28 luglio 2014, in cui erano presenti Armanna, Amara ed altri, nel corso del quale il primo avrebbe espresso propositi ritorsivi nei confronti dei vertici dell’Eni — «perché la valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento…con la valanga di merda che sta arrivando, vedrete che accelererà» – da considerarsi inconciliabili con l’affidabilità di un dichiarante che due giorni dopo si presentò al p.m. De Pasquale per accusare i vertici Eni; video che il Procuratore Greco trasmetteva loro in data 12 aprile 2017, allorquando il processo Eni Nigeria era in fase di udienza preliminare.

[5] Sulla impossibilità di configurare il rifiuto di atti di ufficio in relazione al compimento di attività giudiziarie nell’ambito di procedimenti collegati, si erano espressi due Gip di Brescia a fronte di richieste di archiviazione della Procura della Repubblica, in fattispecie ove veniva in rilievo un supposto colpevole ritardo nella iscrizione di indagati, ai sensi dell’art. 335 c.p.p. I suddetti procedimenti avevano avuto una genesi identica a quella che ha dato vita al processo nei confronti dei pubblici ministeri impegnati nel processo di corruzione internazionale. La fonte era stata la medesima, derivando dalle propalazioni rese dal loro collega nel procedimento per violazione dell’art. 326 c.p. Tali procedimenti si erano tuttavia chiusi con richieste di archiviazione, accolte dai Gip di Brescia. Al di là dei risvolti in fatto, ritenuti insussistenti, tali provvedimenti avevano affrontato il tema della configurazione del reato di rifiuto di atti di ufficio in presenza di valutazioni e di scelte a contenuto discrezionale, nell’ambito di provvedimenti giudiziari (Gip di Brescia del 12.8.2022 n. 2422/22 RG. Gip; Gip di Brescia del 31.1.2021 n. 11769/21 RG. Gip). Diverso ne era l’oggetto (in un caso la ritardata iscrizione del nominativo di indagati, nell’altro il mancato deposito di atti di indagine), ma sostanzialmente identiche le questioni giuridiche sottostanti, che investono in entrambi i casi risvolti procedurali sulla attività del Pubblico Ministero. Tale questione, al pari di molte alte questioni giuridiche, non è neppure lambita dalla motivazione della sentenza.

[6] Non va dimenticato che alla base di tutto vi è la copia di un telefono cellulare. Ora, se si considera che da anni la giurisprudenza di legittimità richiama al rispetto dei principi di proporzionalità e di inerenza nel selezionare il materiale informativo da estrapolare da apparecchi cellulari sottoposti a sequestro, con l’obbligo di restituire e di non trattenere copia di quanto ecceda rispetto alle esigenze investigative e che la Corte Costituzionale (sentenza 170/2023) fa ricadere la materia sotto la sfera protettiva dell’art. 15 Cost., come si può affermare che al pubblico ministero non compete la valutazione sulla rilevanza degli elementi di prova raccolti, oltre che sulle modalità di acquisizione?

[7] Si fa riferimento a quanto emerso in un subprocedimento promosso, ai sensi dell’art. 366 c.p.p., proprio all’interno dell’indagine “Eni-Complotto” ove l’accertamento tecnico irripetibile era stato disposto. Se ne ha traccia in una ordinanza del Gip di Milano del 5.11.2021, emessa a seguito di opposizione da parte di alcuni indagati ai quali era stata negata dal pubblico ministero la estrazione di copia del cellulare in questione, sul rilievo, tra l’altro, che la lunga e sofisticata procedura di accertamento tecnico non era ancora conclusa. Il provvedimento del Gip di Milano è stato poi confermato dalla Corte di Cassazione, sez. VI penale, con sentenza n. 22795 del 22.3.2022 (va menzionato come, tra i due ricorrenti, era incluso anche uno degli imputati del processo per corruzione internazionale).





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