Negli ultimi giorni dell’anno un articolo di Marco Fortis sull’Italia al primo posto nell’Unione europea per minori squilibri (Italia al primo posto nell’Unione europea per minori squilibri, Il Sole 24 ore, 24 dicembre 2024) ha sollevato una questione importante e fatto non poco discutere gli esperti.
Luca Jahier è stato presidente del Comitato economico e sociale europeo (CESE), organo consultivo dell’UE che comprende rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro e di altri gruppi d’interesse.
L’articolo stigmatizzava l’overdose di indicatori statistici prodotti nel corso degli anni per “sorvegliare” i Paesi membri, in gran parte voluti dai Paesi del centro-nord, i cosiddetti “frugali”, per tenere alla briglia i Paesi mediterranei e quelli di nuovo ingresso, ritenuti troppo poco responsabili in materia di disciplina dei conti pubblici. In particolare, Fortis si riferisce ai tredici indici di squilibrio macroeconomico, che sono uno strumento di primaria importanza del pacchetto di autunno del semestre europeo, contenuti nell’Alert Mechanism Report. Essi strutturano la Procedura di squilibrio Macroeconomico (MIB) e quindi informano la successiva formulazione delle raccomandazioni agli Stati membri, nella formulazione delle proprie politiche di bilancio e per correggere gli squilibri rilevati.
Questi 13 indici sono in vigore dal 2013 e contengono per esempio la media triennale della bilancia di conto corrente in percentuale sul PIL (il famoso 3%), la variazione del tasso di cambio effettivo, la variazione delle performance sull’export rispetto alle economie avanzate, le variazioni sul costo del lavoro, della disoccupazione e del tasso di partecipazione al lavoro, il livello del debito pubblico (il famoso 60%) sul PIL, il livello del debito delle famiglie e degli stock di credito alle imprese, il prezzo delle case e così via.
Ebbene, la sorpresa di quest’anno, basata sui dati di fine 2023, è che solo due Paesi violano un solo indice, Polonia e Italia e noi per il ben noto rapporto debito/PIL. Mentre diversi tra i frugali, come Germania, Finlandia, Olanda, Danimarca, Lituania e Svezia ne violano ben tre, l’Austria e l’Estonia due, mentre la Lettonia ben quattro. Francia, Spagna e Portogallo ne sfiorano quattro e la Grecia cinque. Insomma, evidenzia Fortis, l’Italia da sempre criticata, risulta di gran lunga il Paese più virtuoso, ma visto che abbiamo un volume del debito molto alto e per questo paghiamo una massa considerevole di interessi, continuiamo ad essere additati come il Paese malato d’Europa. E l’articolista suggerisce che sarebbe ora che il governo e tutti i rappresentanti del sistema Italia alzassero assai più la voce sia in Europa che nelle diverse sedi internazionali, per pretendere una considerazione migliore e far cambiare la narrativa sul paese.
Nelle considerazioni puntuali dell’autore vi sono certamente diversi punti che meritano la giusta attenzione e che richiederebbero già una più puntuale conoscenza del merito del MIB e del significato di queste materie complesse da parte di tanti dei nostri parlamentari europei.
Ma temo che la questione non si risolva con un cambio di narrazione e di rating, pur necessari. Ma siamo davvero sicuri che sia così? Con un debito pubblico che continua a crescere, dopo un quadriennio di deficit pubblici doppi rispetto all’eurozona, di una crisi della manifattura del Paese a dir poco esiziale (da oltre 700 giorni consecutivi la produzione industriale è in calo e non si è più ripresa) pur se condivisa nel settore dell’automotive con tutta Europa ma con dati più negativi, con l’aumento preoccupante della povertà e del disagio sociale certificato dall’Istat, con lo sgretolamento della sanità pubblica una volta eccellenza europea, la bassa occupazione delle donne, le poche prospettive per i giovani, la scarsa manutenzione del territorio e delle infrastrutture, davvero pensiamo che questi numeri del MIB ci dicano tutto?
O non sarebbe ora di prendere in seria considerazione una profonda revisione di tali indicatori, per noi e per tutti i 27. Non dico che siano tutti inadeguati, ma certamente andrebbero sfrondati e rivisti, alcuni nella loro sostanza e struttura tecnica, altri sostituiti con nuovi più adeguati a misurare le sfide del tempo presente. Infatti, come non ricordare che tali indicatori sono stati pensati in un’altra era geologica, fissati dopo la crisi del 2008, con l’adozione del Six Pact e del Two Pact, quando i Paesi frugali imposero parametri molto rigidi per controllare soprattutto quelli che allora erano ritenuti i Paesi che mettevano più a rischio l’Eurozona, i cosiddetti PIGS, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. E dal 2013, salvo qualche adattamento tecnico, sono rimasti sostanzialmente invariati. Con le conseguenze di misure draconiane che hanno provocato tagli considerevoli a spese in settori essenziali, in investimenti, in ricerca e sviluppo, in innovazione, senza peraltro risolvere seriamente i due valori del deficit (anche se alcuni paesi più disciplinati hanno cominciato ad avere significativi avanzi primari nei propri bilanci annuali, come l’Italia…) e soprattutto degli stock di debito pubblico. Certo si è salvato l’Euro e si è ottenuta la non opposizione dei falchi al “whatever it takes” di Draghi, per salvare l’Euro, ma a prezzo di bassa crescita per tutti, di quella perdita di competitività così ben descritta nel rapporto Draghi con i nostri principali competitor e la ripartenza divaricazioni scoiali e territoriali, che oggi consegnano progressivamente il continente alle destre, elezioni dopo elezione.
Dopo gli anni della ubriacatura da ossessione di solo controllo di deficit e debito pubblico, abbiamo cominciato seriamente ad invertire progressivamente la rotta di tali politiche, sin dai tempi del Piano Juncker, del Pilastro sociale e della agenda per l’agenda per la sostenibilità, già definite prima delle elezioni del 2019. Poi seguite dalla scelta strategica del Green Deal e della doppia transizione, dalle risposte alla pandemia fino all’adozione e messa a terra dei PNRR, dalla subordinazione del semestre europeo ad un impianto largamente innovatore definito negli Annual Sustainable Growth Survey (ASGS, quest’anno per la prima volta inspiegabilmente cancellato con un tratto di penna all’ultimo minuto dalla Commissione), alla recente riforma delle regole del Patto di stabilità e crescita, per giungere infine agli orientamenti strategici dei Rapporti Draghi e Letta. Ebbene tutto questo avrebbe dovuto informare una profonda revisione degli indicatori del MIB. Gli indicatori servono a misurare e classificare e pongono le basi per le successive scelte politiche. Se essi misurano secondo una logica ormai non più adeguata ai tempi, avremo politiche in strutturale contraddizione interna tra ciò che il MIB ci impone e ciò che le altre strategie man mano adottate ci spingono a fare.
Eppure quanto avevamo già capito agli inizi della scorsa legislatura, poi rafforzato con i PNRR e ora reso ancora più urgente dalle esigenze di radicale ristrutturazione delle politiche industriali ed economiche a livello europeo, come si indicano Letta e Draghi, temo non ci sia lucidità e coraggio di andare fino in fondo e mettere mano a questo cantiere. I primi segnali di questa legislatura europea non ci vanno intravvedere né tra i commissari né nel Parlamento europeo chi possa essere in grado di assumere l’iniziativa e pilotare un tale processo di riforma. Tantomeno la Presidente Ursula von der Leyen.
Ma con strumenti inadeguati per misurare, pianificare e poi operare, premiando con inventivi e sanzioni l’una o l’altra politica, se non si va proprio a sbattere, è perlomeno assai più faticoso, contorto e dunque costoso procedere e certo non alla velocità a cui dovremmo invece andare.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link