«Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente» (Giacomo 5,4).
L’1 gennaio 2025 sono trascorsi esattamente 4 anni e un giorno dalla scadenza del contratto nazionale delle Università Pontificie e delle Facoltà ecclesiastiche. 48 mesi cioè 1462 giorni senza rinnovo del contratto con un’inflazione che ha morso ferocemente le paghe dei lavoratori di circa il 20%, una riduzione secca di stipendi già modesti. La scadenza di un contratto di lavoro non è un evento imprevedibile, è infatti a tutti una data ben nota, al padronato e ai sindacati. Non avviare per tempo il rinnovo è stata una precisa volontà di inerzia e di disinteresse per la condizione dei lavoratori e delle loro famiglie, tanto da impoverirli fino al punto di lasciarli per ben 4 anni senza rinnovo contrattuale. Nel novembre del 2024 con comodo e con calma l’AGIDAE (Associazione Gestori Istituti Dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica) e i sindacati sono arrivati ad una prima bozza di ipotesi di accordo regolarmente sottoscritta in attesa della approvazione futura. Si legge però con sconcerto che ai lavoratori saranno concessi ben 350 euro lorde una tantum come munifica elargizione per i quattro anni precedenti pari a poco meno di 24 centesimi lordi per ogni giorno di vacanza contrattuale, netti saranno un 16 centesimi, in questo consisterà il recupero di un contratto 2021\2023 saltato a pie’ pari contro ogni elementare diritto. La bozza contiene non pochi pacchiani errori come quello che ai professori associati verrà riconosciuto un aumento che si sommerà ad un compenso base di molto inferiore a quello già percepito, prova della grande sciatteria nella stesura del testo e caso unico di una bozza di contratto che prevede un decremento economico! Bozza, ripeto, firmata da Agidae e sindacati! I quali hanno provveduto per tempo ai contratti per la Scuola (rinnovati ben due volte) ignorando per 4 anni quelli delle Università!
Personalmente scrissi nella scorsa primavera a diverse autorità della CEI per segnalare gli allora oltre 40 mesi senza rinnovo contrattuale ma non ottenni alcuna risposta, quasi impossibile per dei modesti lavoratori laici farsi ascoltare. Stesso silenzio da parte dei sindacati, un solo sindacato verbalmente mi fece sapere che non erano interessati a sollecitare il rinnovo non avendo loro iscritti nella categoria. Ecco l’esempio del sindacato ridotto a corporazione e del tutto assente nelle cause per la giustizia sociale. Qualche istituzione accademica ha voluto offrire un anticipo economico ai lavoratori ma ciò non cambia la sostanza della gravissima responsabilità dell’Agidae e dei sindacati nell’intollerabile ritardo. I lavoratori del resto non chiederebbero nemmeno aumenti (una pretesa eccessiva!) ma il semplice recupero dell’inflazione per mantenere lo stesso potere di acquisto delle loro paghe, tutte al di sotto di quelle dello Stato e in particolare quelle degli insegnanti che corrispondono a meno della metà di quanto percepiscono i loro colleghi delle università statali. Insegnanti che debbono acquistar libri, riviste, frequentare biblioteche ed archivi, partecipare a convegni e sempre gravando sul proprio modesto stipendio.
La bozza del nuovo contratto prevede invece per tutto il personale la copertura di appena ¼ di ciò che l’inflazione ha prodotto sulle retribuzioni rese ulteriormente modeste dal fatto che molti lavoratori sono costretti ad avere contratti con numeri di ore inferiori al tempo pieno.
Dinanzi a questa situazione di ritardi e omissioni devo considerare che la dottrina sociale della Chiesa va ancora bene quando è affermata nei convegni e nei simposi, quando è insegnata nelle accademie, quando è giustamente pretesa dalle politiche del lavoro da parte degli Stati, risulta invece negata quando sono le istituzioni ecclesiali a doverla applicare riconoscendo i diritti dei lavoratori e delle loro famiglie. Una contraddizione e un cattivo esempio che smentisce clamorosamente anche quanto affermato da Leone XIII in poi riguardo alla giusta retribuzione dei lavoratori alla quale sono stati dedicati inutilmente fiumi di inchiostro senza conseguenze. Forse sarebbe il caso di ricordare che già nel catechismo di Pio X tra i quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio vi è quel “defraudare la giusta mercede agli operai”, una ingiustizia tanto grave quanto sovente dimenticata o negata con mille pretesti. Una ingiustizia che continua ancor oggi a mortificare e ad opprimere, nella generale indifferenza, immense masse di lavoratori: a nero, a tempo determinato, a somministrazione e anche coloro che sono in attesa di un rinnovo contrattuale da appena 48 mesi.
Sergio Tanzarella
ordinario di Storia della Chiesa
presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Napoli
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